Dopo le speranze di revirement suscitate da Cass. n. 2054/2017, la Corte è subito tornata ad applicare il tributo di registro sulla base della “causa reale” del negozio, rifiutando di rimettere la questione alle Sezioni Unite. Non resta ormai che prendere atto di questo orientamento, per quanto assai discutibile. Anche nel nuovo scenario, è però indispensabile salvaguardare la funzione dell’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 quale regola interpretativa dei negozi, anche complessi, posti in essere dalle parti.
After the hopes of a revirement raised by the decision in case n. 2054/2017, the the Italian Supreme Court immediately reaffirmed its thesis that registration tax shall apply according to the intention of the parties. Therefore, it is now necessary to accept this settled case law, even if it remains highly criticizable. However, also in the new scenario depicted by the Court, it is important to safeguard the original role of art. 20, Presidential Decree n. 131/1986, as an interpretative rule of the transactions, even complex, made by the parties.
Articoli Correlati: imposta di registro - corte di cassazione
1. La giurisprudenza della Cassazione e la prospettiva dell'indagine - 2. L’art. 20 e la teoria della “causa reale” nella giurisprudenza della Corte di Cassazione - 3. Segue: il tributo di registro come imposta d’atto - 4. Conclusioni: la funzione dell’art. 20 nella nuova prospettiva di inquadramento - NOTE
Le pronunce in commento alimentano l’ormai più che decennale dibattito [1] riguardo alla portata dell’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 in tema di “Interpretazione degli atti” ai fini dell’imposta di registro. Pur vertendo su fattispecie in tutto analoghe, le due sentenze pervengono infatti a soluzioni opposte, palesando il persistere di forti tensioni ricostruttive attorno alla disposizione in questione e, più in generale, alla struttura stessa del tributo di registro [2]. I casi affrontati dalla Suprema Corte riguardano entrambi una fattispecie molto nota nella prassi, ossia il conferimento di ramo d’azienda seguito dalla cessione, da parte della conferente, delle partecipazioni ricevute in cambio dell’apporto. Com’è solito in queste circostanze, l’Agenzia delle Entrate riqualifica la sequenza negoziale adoperata dalle parti in cessione dei rami d’azienda conferiti, giacché questo sarebbe l’“effetto finale” perseguito dai contraenti, che solo dovrebbe assurgere a parametro dell’imposizione in base all’art. 20 della legge di registro [3]. La pretesa dell’Amministrazione Finanziaria è respinta nella sent. n. 2054/2017. Aderendo al pensiero della dottrina [4], i giudici di legittimità vi affermano che l’attività ermeneutica contemplata dall’art. 20 cit. non può che svolgersi entro il limite invalicabile dato dallo «schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici». Tale soluzione è smentita dalla di poco successiva sent. n. 3562/2017 [5], che segna il ritorno all’orientamento ampiamente prevalente della Corte di Cassazione e l’abbandono di ogni speranza di revirement. In linea con una giurisprudenza più che consolidata [6], la decisione in questione chiarisce che il prelievo di registro deve infatti essere determinato «in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale», da ravvisare nella specie «negli effetti della vendita, e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo». Le pronunce in rassegna sono emblematiche delle tradizionali [continua ..]
Per farlo, conviene muovere dall’esame degli aspetti più critici della giurisprudenza di legittimità che negli ultimi tempi si è occupata dell’art. 20 della legge di registro. Come noto, questa desume gli “effetti giuridici” e l’“intrinseca natura” degli atti portati alla registrazione dall’interesse economico in concreto perseguito dalle parti; ciò che i giudici di legittimità definiscono la “causa reale” dell’operazione negoziale [12]. L’imposizione dovrebbe perciò essere modulata sul risultato pratico voluto dai contraenti, cosicché alla ricerca di questo si indirizzerebbe l’attività ermeneutica contemplata dall’art. 20, D.P.R. n. 131/1986 [13]. La casistica al riguardo è la più varia. Si pensi ad esempio al caso, oggetto delle pronunce in rassegna, del conferimento di azienda seguito dalla vendita delle partecipazioni della conferitaria, che la Corte di Cassazione interpreta (e tassa) come cessione di azienda, essendo questo l’obiettivo cui sarebbe funzionalmente rivolta la complessiva sequenza negoziale. Ma lo stesso dicasi per la cessione delle quote di una società il cui unico asset è costituito da un fabbricato, riqualificata in compravendita immobiliare, per la vendita dei singoli beni facenti parte del compendio aziendale, trattata come cessione di azienda, ovvero, ancora, per la cessione di un immobile da demolire, interpretata come vendita di un terreno edificabile. Seguendo questa impostazione, la Corte di Cassazione appare però talvolta muoversi su di un terreno tutto extratestuale, perdendo di vista l’operazione effettivamente posta in essere dalle parti e gli “effetti giuridici” [14] che ad essa la legge collega [15], ai quali pure impone di fare riferimento l’art. 20 cit. L’esito, alquanto discutibile, di questo approccio è che la finalità pratica dell’affare assurge in sé a oggetto dell’imposizione, senza alcuna considerazione – rectius: senza alcuna interpretazione – degli assetti giuridici in concreto adottati e degli effetti giuridici da essi scaturiti [16]. Si può, cioè, ammettere che, nell’ottica dell’art. 20 cit., più atti isolati – considerati nel loro [continua ..]
Dal punto di vista sistematico, la principale critica che viene rivolta al prevalente orientamento della Corte di Cassazione è data dalla natura d’imposta d’atto del tributo di cui trattasi, da cui viene fatto usualmente discendere il divieto di interpretazione extratestuale degli atti portati alla registrazione [25]: l’isolata soluzione cui perviene la sent. n. 2054/2017 muove appunto da questo assunto [26]. È questa, già lo si è avuto modo di accennare, l’impostazione senz’altro più rispettosa della tradizione dell’imposta di registro, concepita in origine per colpire le singoli disposizioni che compongono l’accordo e poi evolutasi nel senso di attribuire rilevanza al contratto da sottoporre a registrazione [27]. Nondimeno, ci pare che non si possa fare altro oggi che prendere atto dell’evoluzione impressa all’interpretazione del tributo dalla giurisprudenza di legittimità, nell’intento di adattarne la disciplina (e, a ben vedere, la struttura stessa) ai mutamenti intervenuti nel sistema tributario e nel contesto giuridico ed economico [28]. Deve, cioè, intendersi ormai diritto vivente l’affermazione per cui l’imposta di registro colpisce, attraverso l’atto, gli effetti giuridici dell’operazione economica realizzata dai contraenti: con le parole della Cassazione, «gli artt. 1 e 20 del D.P.R. n. 131 del 1986 vanno interpretati nel senso che l’oggetto dell’imposta di registro, per quanto genericamente e formalmente individuata nel riferimento dell’art. 1 agli atti soggetti a registrazione o volontariamente presentati, nella sostanza, è costituito dagli effetti giuridici di tali atti» [29]. Dove, peraltro, la nozione di “atto” va intesa in senso ampio, come riferita alla complessiva sequenza negoziale posta in essere dalle parti: lo testimonia l’impiego ricorrente della locuzione «imposta di negozio», in aperta contrapposizione alla tradizionale concezione del tributo di registro quale «imposta d’atto» [30]. Le conseguenze che ne derivano sono rilevantissime [31]. Proviamo a enuclearle: ai fini dell’imposizione, l’“atto” va inteso come operazione economica, che dunque diviene oggetto dell’imposta; il prelievo si collega direttamente al compimento [continua ..]
Come abbiamo cercato di dimostrare, nella ricostruzione ormai costantemente offerta dalla Corte di Cassazione, tende a dissolversi, dietro il richiamo alla nozione di causa concreta, ogni tentativo di interpretazione/qualificazione degli atti [32]. Non si interpreta, né si qualifica alcunché, limitandosi a ricercare le ragioni pratiche che hanno indotto le parti all’affare [33], così finendo per assoggettare a imposizione la vicenda negoziale sulla base dell’apprezzamento dei suoi effetti sostanziali. Anche nella nuova prospettiva di inquadramento aperta dalla Cassazione, occorre di contro salvaguardare la funzione dell’art. 20 cit. quale «regola interpretativa» [34], che impone di ricercare – e interpretare/qualificare – l’operazione in concreto realizzata, anche se frazionata in una pluralità di atti, e gli effetti che ne sono derivati; ciò affinché resti l’accordo, ed i suoi effetti giuridici, al centro della fattispecie d’imposta. Significa che l’indagine deve focalizzarsi sulla ricostruzione della portata obiettiva dell’affare, all’uopo avvalendosi delle regole comuni di interpretazione previste dal Codice Civile e tenendo in conto l’intero contesto negoziale nel quale si innestano i singoli atti. È per questa via che, parafrasando l’art. 20 cit., si individueranno «la intrinseca natura e gli effetti giuridici» dell’operazione, da assumere a parametro dell’imposizione, «anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente». In questa prospettiva, il prelievo esce da una dimensione puramente cartolare, ma resta ancorato agli effetti giuridici sprigionati nell’ordinamento per effetto dell’operazione in concreto realizzata dai contraenti, anche ove questa si sia estrinsecata in una sequenza negoziale complessa [35]. Nella pratica, la ricerca e la qualificazione giuridica del negozio realmente posto in essere dalle parti potrà giustificare l’imposizione come unitaria cessione di azienda della dismissione isolata dei singoli beni facenti parte del compendio aziendale. Sempre sul piano della interpretazione degli atti e, quindi, in punto di corretta ricostruzione degli effetti giuridici, si potrà ammettere, almeno in principio, la qualificazione come cessione di azienda [continua ..]