Il merito della sentenza che qui si commenta sta nel correttamente evidenziare gli effetti preclusivi che discendono a danno degli Uffici finanziari per effetto della maturazione dei termini decadenziali di accertamento, in punto di delimitazione dei profili di contestabilità circa il modo di essere della fattispecie imponibile così come dichiarata dal contribuente. Sottesa alla rigorosa presa di posizione dei giudici di legittimità sta l’esigenza di salvaguardare come valore di sistema la certezza del diritto che, in ambito tributario, si declina prioritariamente nella salvaguardia della stabilità nel tempo di quei profili dell’obbligazione tributaria destinati a spiegare i loro effetti conformanti anche in periodi impositivi successivi a quello di loro emergenza rispetto al quale siano rimasti incontestati.
The commented judgment is particularly interesting since it clearly highlights the exclusionary effects for the Italian tax authorities linked to the expiry of deadlines for tax assessment activities and the delimitation of challengeable aspects of the taxable base as declared by the taxpayer.
The Supreme Court’s firm decision seeks to protect the principle of legal certainty in tax matters, which represents a pillar of the whole system and inevitably implies safeguarding the stability over time of those tax obligation profiles destined to unfold their conforming effects also in tax periods subsequent to their emersion, with respect to which they were unchallenged by tax inspectors.
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1. Premessa - 2. La vicenda giudiziale - 3. L’iter argomentativo della Suprema Corte - 3.1. Sulla questione di merito rimasta assorbita - 3.2. Segue - 4. Sulla rilevata intervenuta decadenza dell’Ufficio dall’accertamento rispetto al rilievo oggetto del contendere - 4.1. Le logiche sistematiche sottese - 4.2. L’opinabilità dei supporti argomentativi di corredo - 4.3. Il principio di autonomia dei periodi impositivi - 5. Considerazioni conclusive - NOTE
La controversia che ha messo capo alla sentenza in commento è di facile sintesi. Nel 1998 il Comune di Como, mediante stipula di apposito contratto di servizio, dispone l’affidamento in esclusiva della gestione del servizio idrico integrato su tutto il territorio comunale alla società a prevalente capitale pubblico AGSM S.p.a. In tale contesto, si prevede che la società abbia in concessione d’uso la rete e gli impianti dell’acquedotto di proprietà del Comune, dietro pagamento di un canone periodico di concessione, per un periodo di ventinove anni. La società iscrive in bilancio il diritto immateriale di concessione d’uso e procede al suo ammortamento ex art. 103, comma 2, TUIR: parallelamente provvede alla deduzione del canone concessorio annuale contrattualmente pattuito. Il tutto procede senza rilievi di sorta fintanto che, nel 2011, la società concessionaria – probabilmente in esito ad un’attività di verifica fiscale condotta nei suoi confronti – non riceve la notifica di un avviso di accertamento, relativo al periodo impositivo 2007, mediante il quale l’Ufficio, nulla eccependo quanto alla deducibilità del canone annuale di concessione dei beni, disconosce invece la quota di ammortamento del relativo diritto d’uso spesata dalla società nell’esercizio, disponendo pertanto per il suo recupero ad imposizione. E ciò contestando in radice l’iscrizione in bilancio del diritto di concessione da parte della società affidataria del servizio e/o comunque negandone la deducibilità fiscale mediante ammortamento [1]: il riconoscimento fiscale del relativo costo – questo, sembra evincersi dalla sentenza, l’argomentare dell’Ufficio – essendo già assicurato, appunto, dalla deduzione del canone periodicamente corrisposto dalla società per l’utilizzo dei beni concessi in uso in base alle disposizioni contrattuali; realizzandosi, altrimenti, un’indebita duplicazione di sua rilevanza.
Orbene, dalla sentenza in rassegna non è dato comprendere esattamente come si fosse concluso il primo grado di giudizio: anche se un’incidentale presente nella narrativa induce a ritenere che la società ne fosse uscita integralmente soccombente. Ad ogni buon conto, in grado d’appello, la Commissione regionale di Milano, nel mentre confermava il recupero impositivo dell’Ufficio, accoglieva la domanda subordinata della società in punto di non debenza di sanzioni e interessi: ravvisando il ricorrere, nel caso di specie, dell’esimente dell’obiettiva incertezza del dato normativo [2]. Proposto ricorso principale per la cassazione in parte qua della sentenza d’appello da parte dell’Agenzia delle Entrate, la società contribuente, con ricorso incidentale [3], lamentava: a) per un verso, la mancata rilevazione giudiziale dell’intervenuta decadenza dell’Ufficiodall’accertamentodella (in)deducibilità fiscale del costo – rappresentato dal valore dei beni (rete e impianti acquedottistici di proprietà del Comune ricompresi nell’inventario) oggetto di concessione in uso – della cui rata di ammortamento si disquisiva il recupero: la sua originaria appostazione contabile in bilancio come bene immateriale e il suo conseguente inquadramento come costo fiscalmente deducibile mediante ammortamento ex 103 TUIR datandosi al 1998, annualità rispetto alla quale il relativo termine di accertamento ex art. 43, D.P.R. n. 600/1973 era ormai maturato da tempo senza che contestazione di sorta fosse stata mai mossa al riguardo dall’Ufficio; b) per l’altro, l’errore in cui sarebbe incorso il giudice d’appello laddove costuiaveva preteso di sostenere l’indeducibilità delle quote di ammortamento del diritto immateriale di concessione iscritto in bilancio accampando una, altrimenti, asseritamente indebita duplicazione di rilevanza fiscale di un medesimo costo, per effetto della già riconosciuta (giacché dall’Ufficio incontestata) deducibilità delcanone annualmente corrisposto dalla società al Comune per l’utilizzo dei [continua ..]
Così delineato il quadro contenzioso, la Suprema Corte – con inappuntabile rigorosità logica – prende le mosse dal ricorso incidentale della società e, con un piglio argomentativo tanto sintetico quanto a tratti assertivo, ritiene meritevole di accoglimento la prima delle due doglianze formulate dalla società contribuente: con conseguente assorbimento di tutte le altre e la definizione dell’intero giudizio. Incidenter – e solo per amore di disquisizione accademica – ci verrebbe da dire: peccato. Sarebbe stato infatti molto interessante conoscere il pensiero della Suprema Corte sulla questione sostanziale rimessa alla sua cognizione per effetto del secondo motivo di ricorso (incidentale) promosso dalla società. Per parte nostra, riteniamo che le doglianze mosse dalla parte contribuente quanto alle argomentazioni motivazionali con cui il giudice aveva respinto nel merito l’appello della società fossero condivisibili.
In primo luogo, perché il ragionamento del giudice d’appello, se ben ne abbiamo compreso i termini dal contenuto della sentenza in commento, è intrinsecamente errato nella sua stessa impostazione logica. Ammessa pure – ma non concessa – la bontà dell’assunto di principio da cui muove il giudice di secondo grado (ovverosia che canone concessorio per un verso e quota di ammortamento dall’altro fossero due diverse modalità di rappresentazione e appostazione contabile di uno stesso medesimo costo, da cui l’asseritamente indebita duplicazione di sua rilevanza fiscale in ragione della intervenuta deduzione fiscale di entrambi ad opera della società), è evidente che il thema decidendum per il giudice consisteva nello – e restava comunque quello di – stabilire quale fra i due fosse il modo corretto di rappresentazione contabile e conseguente deducibilità fiscale di siffatto costo: e, più precisamente, di verificare la correttezza o meno dell’assunto dell’Ufficio secondo cui il valore degli impianti concessi in uso da parte del Comune non avrebbe potuto essere iscritto in bilancio come bene immateriale e tanto meno essere ammortizzato ex art. 103 TUIR. Niente di più e niente di meno. In particolare, e per contro, nell’economia di una simile prospettiva d’indagine nessun rilievo avrebbe dovuto essere destinata a spiegare la circostanza della mancata contestazione da parte dell’Ufficio della deducibilità fiscale del canone concessorio: a prescindere dalle eventuali pretese duplicazioni di deducibilità fiscale del medesimo costo che ne sarebbero (per assunto) potute conseguire. Ed è invece esattamente evocando un simile esito che il giudice d’appello ritiene motivare la conferma del recupero ad imposizione della quota di ammortamento in contestazione: quasi che avesse deciso di pronunciarsi secondo equità. Da cui la piena condivisibilità, sotto questo profilo, delle doglianze formulate al riguardo dalla società.
Ma non basta. A monte, è soprattutto la sostanza intrinseca del rilievo dell’Ufficio a non convincere. L’impressione infatti è che l’Ufficio, prima, e le Commissioni tributarie, di conserva, poi, siano incorse in un’indebita commistione fra due voci di costo che, per contro, sono e hanno da rimanere logicamente, contabilmente e (quanto alla loro deducibilità) fiscalmente distinte e separate. Un conto infatti è il canone concessorio – che rappresenta il costo che la società sopporta annualmente per l’ottenimento in gestione del complesso aziendale necessario all’espletamento del servizio affidato – altra cosa è l’ammortamento (del diritto d’uso) degli impianti in concessione che, viceversa, si correla all’obbligo – presumibilmente assunto dalla società concessionaria in seno al contratto di affidamento – di assumere a proprio carico, per tutta la durata della concessione, gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti di proprietà del Comune ottenuti in concessione, nell’ottica della loro futura restituzione nelle condizioni di conservazione e funzionamento in cui si trovavano al momento dell’assunzione in carico: secondo la medesima logica che presiede al disposto di cui all’art. 102, comma 8, TUIR [4]. Disposizione, quest’ultima, che – com’è noto – in caso di affitto d’azienda, riconosce non già al proprietario, bensì all’affittuario, la deducibilità delle quote d’ammortamento dei beni aziendali stante, appunto, l’obbligo in capo a costui, ai sensi dell’art. 2561 c.c., di provvedere alla conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili e, dunque, subendo costui il (e rimanendo per contro indenne il proprietario del) loro deperimento per effetto del loro impiego nel ciclo produttivo in pendenza del contratto di affitto [5]. Insomma, a nostro parere, la paventata illegittima duplicazione di deducibilità di un medesimo costo non aveva davvero ragion d’essere nel caso di specie.
Come già anticipato, però, il pensiero della Corte in argomento rimane ignoto perché i giudici di legittimità si fermano prima. In sostanza accertando che l’oggetto del contendere nel caso di specie, come sin da subito eccepito dalla società contribuente, era rappresentato da rilievi rispetto ai quali, all’atto della loro elevazione, erano già maturati i termini decadenziali di accertamento ai danni dell’Ufficio. Altrimenti detto, la Suprema Corte registra l’intervenuta decadenza dell’Ufficio finanziario dal potere di muovere i profili di contestazione per contro posti a fondamento motivazionale del disconoscimento di deducibilità (e, dunque, del conseguente recupero ad imposizione) della quota di ammortamento spesata dalla società, con riferimento al periodo d’imposta oggetto del contendere. Essi (profili) attenendo, a monte, all’an di rilevanza e al quomodo di deducibilità fiscale del costo la cui quota di ammortamento era stata disconosciuta [6] ormai preclusi nella loro contestabilità in quanto riferibili a periodi impositivi (nel caso di specie, l’esercizio 1998) già divenuti definitivi: appunto, per maturazione dei relativi termini decadenziali di accertamento.
Il cardine del ragionamento dei giudici di legittimità è pienamente condivisibile: esso mostrando piena consapevolezza delle molteplici sfaccettature in cui si articola il riconoscimento e la conseguente disciplina di rilevazione fiscale di un elemento positivo o negativo di reddito [7]. E che attengono, nell’ordine di loro, successiva, logica graduazione: a) all’effettività di siffatto componente positivo/negativo di reddito; b) all’an e/o quantum di sua rilevanza fiscale (l’inerenza, potremmo dire, assoluta, sotto il profilo sostanziale); c) infine, spesso ma non necessariamente strettamente interconnessi tra loro, al quando e/o al quomodo di sua rilevanza fiscale (inerenza, questa, relativa: essa investendo precipuamente il profilo temporale di sua imputazione) [8]. Ogni passaggio comporta un’operazione ricognitivo/accertativa – talvolta non disgiunta da profili di determinazione volitiva riconosciuti dal legislatore al contribuente [9] – che il contribuente medesimo ha da compiere all’interno e per il tramite di atti aventi rilevanza formale e documentale (il bilancio e/o la dichiarazione d’imposta) e nel rispetto di precise scansioni temporali a carattere decadenziale [10]: cui si riconnettono specularmente rigorose modalità formali (nelle moltiformi vesti in cui si articolano gli atti lato sensu accertativi dell’Ufficio [11]) e altrettanto rigorosi termini, del pari decadenziali, di suo controllo, accertamento ed eventuale contestabilità fiscale da parte degli uffici finanziari [12]. Questo è l’assetto di principio entro cui si muove la sentenza che qui si commenta: dove, dunque, gli effetti preclusivi che discendono a danno degli Uffici finanziari dalla maturazione dei termini decadenziali di accertamento, in punto di delimitazione dei profili di contestabilità circa il modo di essere della fattispecie imponibile così come dichiarato dal contribuente, assurgono a regola aurea di giudizio [13].
Regola che però trova un argomentare giustificativo di supporto e rinvii giurisprudenziali a corredo almeno apparentemente non del tutto conferenti sul piano sistematico e su cui pertanto si è sollecitati a soffermare l’attenzione. Innanzitutto, sovviene il richiamo alla ben nota (e sicuramente pregevole) giurisprudenza in tema di c.d. efficacia espansiva (ovvero esterna) del giudicato. Non v’è dubbio che la funzione ancillare spiegata dal processo – e dell’attività cognitivo/accertativa richiesta al ed espletata dal giudice per suo tramite – rispetto al diritto sostanziale, fanno del primo e del suo evoluto atteggiarsi osservatorio privilegiato per l’individuazione delle direttive di principio che interessano il secondo in un’ottica di sistema. E dunque bene ha fatto la Corte a invocare siffatto proprio autorevole (adeguatamente circostanziato e) consolidato indirizzo [14] quale indice sintomatico della tensione giurisprudenziale verso una cifra di lettura degli strumenti processuali che, nel mirare ad evitare il contrasto (anche meramente logico) dei giudicati, assurgono al contempo a garanzia di un’omogenea e stabile definizione anche nel tempo di quei profili del modo di essere dell’obbligazione tributaria che non esauriscono la loro rilevanza fiscale in un unico esercizio impositivo ma sono destinati a spiegare i loro perduranti effetti conformanti in un arco temporale, seppur predeterminato, di più ampio respiro tra le parti tra le quali essa intercorre. E però a noi sembra che le preoccupazioni che hanno portato la Suprema Corte a riconoscere e opportunamente delimitare i termini di efficacia del giudicato esterno nel processo tributario siano (e siano state) declinate in chiave spiccatamente processualistica: i richiami all’utilità della sentenza in chiave di effettività della tutela giudiziale richiesta e ottenuta per suo tramite, l’evidenziazione della valenza patologica che si assume insita nel fenomeno di c.d. parcellizzazione delle controversie tributarie che si rivengono nelle sentenze all’uopo richiamate dalla pronuncia in commento [continua ..]
Direi invece – e a dispetto di quanto sostiene il Collegio giudicante – che è, proprio e piuttosto, il criterio dell’autonomia dei periodi d’imposta, opportunamente inteso, ad assurgere a rigoroso fondamento di principio degli assunti formulati dalla Suprema Corte nella sentenza in questione. Tenuto conto, infatti, che di periodi impositivi (e di loro autonomia) ha senso parlare solo con riferimento a quei tributi il cui presupposto è rappresentato da un fatto non già istantaneo sibbene in continuo divenire nel tempo – da cui la convenzionalità della scelta di rilevazione periodica del suo diverso atteggiarsi ai fini del riconnesso prelievo impositivo – la scelta legislativa di attribuire valenza decadenziale ai relativi termini di accertamento (quanto agli effetti discendenti dal loro compiuto maturarsi) non altrimenti si spiega se non con l’intento legislativo di preservarne appunto l’autonomia: con ciò intendendo riferirsi all’effetto di immutabilità/insindacabilità successiva, e dunque definitiva cristallizzazione della rappresentazione del modo di essere (sia ciò frutto di un’attività meramente ricognitiva ovvero in tutto o in parte di una scelta in chiave volitivo/negoziale del contribuente) dell’obbligazione anche per quanto attiene a quei profili di essa destinati a rilevare altresì negli esercizi successivi: com’è appunto nel caso di cui ci si occupa in questa sede. Con, come contraltare, l’ulteriore conseguenza – questa peraltro assolutamente pacifica in tale sua declinazione – che laddove l’Ufficio finanziario, nel rispetto dei termini decadenziali d’accertamento e avuto riguardo allo specifico (correttamente individuato) periodo impositivo di competenza temporale, formalmente venga a sindacare al contribuente un profilo fiscalmente rilevante della fattispecie impositiva destinato a spiegare i suoi effetti in una pluralità di esercizi successivi, la mancata tempestiva contestazione di siffatto profilo in sede amministrativo e/o giudiziale da parte di quest’ultimo, per il tramite dell’impugnazione dell’atto di accertamento che ne veicola la [continua ..]
Ed è così allora che, curando di allargare opportunamente la prospettiva visuale, certamente i richiami operati dalla Suprema Corte a supporto del proprio decisum si rivelano non affatto estranei alla tematica propriamente oggetto del contendere nel giudizio che ha messo capo alla sentenza in commento: l’ottica di loro inquadramento involvendo, in ogni caso, il più vasto tema – appunto dalle molte sfaccettature – della tutela del principio di certezza del diritto: che – di particolare sensibilità nel nostro settore ordinamentale [17] – quivi trova peculiari declinazioni in termini e di prevedibilità (ex ante) e di rapida stabilizzazione (ex post), in fatto e in diritto, del modo di essere della fattispecie impositiva inter partes. Ferma dunque la condivisibilità della posizione di principio della Corte nel caso di specie, resta ora da verificarne l’impatto sul sistema (anche in termini di possibile reazione del legislatore [18]).