Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2280-1332 / EISSN 2421-6801
G. Giappichelli Editore

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Tassazione ambientale e politiche d'intervento: principi, rimedi e forme di prelievo. Parte seconda (di Salvatore Antonello Parente *)


L’utilizzo di tributi ambientali, se può favorire politiche di protezione dell’am­bien­te, non può costituire l’unico strumento per disincentivare i comportamenti inquinanti. Infatti, per contrastare situazioni diffuse e irreversibili di degrado, spesso, si rende necessario adottare ulteriori presidi sanzionatori. Per questo motivo, nella fiscalità ambientale, la nozione di capacità contributiva non può essere intesa in senso meramente statico, secondo indicatori che denotano l’attitudine alla contribuzione in riferimento ad entità sintomatiche di forza economica e di ricchezza spendibile, ma va ricostruita alla luce di parametri in grado di assegnare rilievo al concorso alla spesa pubblica, valorizzando, accanto agli indici ritenuti manifestazione di ricchezza concreta, anche “capacitazioni” differenziate, economicamente valutabili, quali l’incentivo e il disincentivo di determinate condotte, idonee ad esprimere potenzialità economica, alla stregua di un criterio equo e ragionevole di riparto dei costi pubblici di ripristino dell’ambiente.

Environmental taxation and intervention policies: principles, remedies and taxing mechanisms. Second part

The use of environmental taxes, if it can help environmental protection policies, cannot be the only tool to discourage polluting behavior. In fact, in order to contrast widespread and irreversible degradation situations, often, it is necessary to adopt further sanctioning measures. For this reason, in environmental taxation, the notion of ability to pay cannot be understood in a purely static sense, according to indicators that denote the aptitude to contribute with reference to entities symptomatic of economic strength and expendable wealth, but must be reconstructed in the light of parameters capable of assigning importance to the contribution to public spending, enhancing, alongside the indices considered to be a manifestation of concrete wealth, also differentiated, economically assessable “capacities”, such as the incentive and disincentive of certain behaviors, suitable for expressing economic potential, to as a fair and reasonable criterion for sharing the public costs of restoring the environment.

SOMMARIO:

1. La configurazione del tributo ambientale come “imposta” o come “tassa” - 2. La critica alla tesi che qualifica il tributo ambientale in termini di tassa. Le ipotesi in deroga - 3. I limiti all’utilizzo di strumenti fiscali nelle politiche di protezione ambientale. L’inadeguatezza del tributo a perseguire finalità di tutela ambientale integrale - 4. Il controllo di compatibilità del tributo ambientale con il principio di capacità contributiva - 5. Le molteplici declinazioni assunte dalla capacità contributiva - 6. La fattispecie imponibile come indice di capacità contributiva. L’economicità del tributo ambientale - 7. La conformità del tributo ambientale al principio di capacità contributiva per il tramite del canone “chi inquina paga”. La distinzione dei tributi ambientali sui consumi dalle imposte sul consumo in cui l’ambiente esplica una funzione extrafiscale - 8. La valorizzazione del bene “ambiente” quale “cespite di lusso”. L’utilizzo “improprio” dell’ambiente quale fatto-indice di capacità contributiva - 9. La difficoltà di valorizzare i tributi che colpiscono le emissioni inquinanti e le altre entità non reddituali o non patrimoniali. Il nesso tra i carichi pubblici e l’obbligo di contribuzione - 10. La capacità contributiva come criterio equo e ragionevole di riparto delle spese di ripristino ambientale - 11. Il legame tra la capacità contributiva, il principio di uguaglianza e il principio “chi inquina paga” nella compensazione delle economie e diseconomie esterne - 12. Il tributo ambientale come “contributo” al costo di risanamento dell’am­biente - NOTE


1. La configurazione del tributo ambientale come “imposta” o come “tassa”

È controverso se il tributo ambientale “in senso stretto” abbia la fisionomia di un’imposta o, in alternativa, di una tassa [1]. A differenza di quest’ultima, che è una prestazione pecuniaria resa dal contribuente a fronte di un servizio pub­blico o di un’attività amministrativa o giurisdizionale richiesta e fruita [2], l’im­posta è una prestazione pecuniaria che lo Stato ha il diritto di esigere, nei casi e nei modi stabiliti dalla legge, per conseguire un’entrata in presenza di una manifestazione di capacità contributiva [3]. La tassa, dunque, remunera le prestazioni rese dall’ente pubblico a favore del contribuente in maniera “corrispettiva” ai benefici ricevuti da quest’ultimo (i c.d. servizi divisibili), essendo caratterizzata da un nesso sinallagmatico tra quanto ricevuto e quanto dovuto all’ente erogatore del servizio; l’imposta, invece, è corrisposta dal contribuente al momento del verificarsi del presupposto che esprime la capacità contributiva, senza un collegamento con il beneficio ricevuto [4]. In breve, la peculiarità dell’imposta risiede nel non essere correlata ad una specifica prestazione, limitandosi a remunerare un servizio pubblico indivisibile reso dall’ente pubblico a favore dell’intera collettività, sulla base di una generalis ratio contribuendi: questa tipologia di tributo è una prestazione patrimoniale (coattiva) dovuta dal contribuente, quale componente della collettività organizzata, al soggetto pubblico, in forza di una manifestazione di ricchezza; essa è destinata a finanziare le spese per far fronte ai bisogni collettivi, onde garantire il buon funzionamento della macchina dello Stato [5]. Ciò che caratterizza il rapporto giuridico d’imposta [6] è la supremazia del potere pubblico, che giustifica il sacrificio economico gravante sul singolo, legittimando la richiesta di una prestazione patrimoniale, accanto al dovere d’incamerare le somme riscosse, per assicurare l’esistenza della collettività organizzata [7]. Perciò, gli elementi essenziali dell’imposta sono l’impoverimento del soggetto passivo, la natura coattiva della prestazione richiesta dall’ente impositore, l’assenza di un rapporto sinallagmatico e la destinazione del ricavato [continua ..]


2. La critica alla tesi che qualifica il tributo ambientale in termini di tassa. Le ipotesi in deroga

Alla luce di questa dicotomia, sul piano assiologico, è fondamentale risolvere la questione della qualificazione del tributo ambientale in termini di tassa, ossia di prestazione tributaria commutativa e non contributiva, con cui finanziare il servizio di risanamento ambientale, necessario a rimediare alla condotta inquinante [11]. La tesi favorevole [12] a quest’ultima qualificazione reputa che qualunque servizio di bonifica ambientale «potrebbe essere assunto a presupposto del tributo, a prescindere dalla sua rilevanza economica e, quindi, dalla coerenza al principio di capacità contributiva, intesa come capacità economica» [13]. In tal modo, il presupposto della “tassa ambientale” sarebbe da rinvenire nella richiesta, formulata dal privato all’ente pubblico, di beneficiare del servizio di risanamento del danno ambientale cagionato dallo svolgimento della propria attività economica: a fronte della corresponsione della tassa, lo Stato provvede a dar corso alle attività di ripristino ambientale, conseguenti alla condotta inquinante [14]. In realtà, la ricostruzione è riduttiva, posto che l’intervento statale dovrebbe essere finalizzato non tanto a ripristinare lo status quo ante, rimuovendo le conseguenze del pregiudizio all’ambiente, quanto a prevenire condotte lesive dell’ecosistema e ad attuare misure di sostenibilità ambientale [15]. In chiave sistematica, infatti, sarebbe più corretto configurare il tributo am­bientale come imposta, trattandosi di una prestazione pecuniaria resa in funzione della prevenzione e della riduzione del deterioramento ambientale, compito dello Stato e delle autonomie locali, cui è affidata la tutela dell’ecosiste­ma, finanziata tramite la fiscalità generale e non avvalendosi di prestazioni specifiche corrisposte a fronte del pagamento del tributo [16]. L’adesione all’orientamento contrario, invece, porterebbe ad autorizzare il soggetto agente a tenere condotte inquinanti, salvo sopportarne le spese di ri­sanamento, secondo una linea antinomica inaccettabile per l’ordinamento [17]. Quindi, la tesi che ricostruisce i tributi ambientali in chiave commutativa sarebbe da rigettare non solo perché assoggetta ad imposizione unicamente le condotte lesive delle risorse ambientali per le quali l’ente pubblico ha [continua ..]


3. I limiti all’utilizzo di strumenti fiscali nelle politiche di protezione ambientale. L’inadeguatezza del tributo a perseguire finalità di tutela ambientale integrale

L’utilizzo di strumenti fiscali per attuare politiche di protezione ambientale soffre di restrizioni, essendo plausibile solo qualora il deterioramento che giustifica l’imposizione sia sopportabile, reversibile e riparabile in termini relativi e non assoluti [24]; in caso contrario, si rende necessario intervenire con strumenti più incisivi, quali i divieti o le sanzioni penali e amministrative, che fungono da deterrente all’esercizio di attività capaci di cagionare forme di degrado [25]. Perciò, il tributo ambientale è inidoneo a perseguire finalità di tutela integrale e non può costituire l’unico strumento per disincentivare il comportamento inquinante [26]. Il quadro tracciato, se conferma l’inadeguatezza degli strumenti tributari a far fronte alle forme di alterazione “non sostenibile” del territorio, preclude di considerare come presupposto del tributo l’unità fisica fonte del deterioramento irreparabile, che rischierebbe d’introdurre nel sistema dei valori «una inaccettabile giustificazione morale a produrre danni ambientali irreversibili» [27]. Piuttosto, in presenza di alterazioni non sostenibili, è ragionevole adottare strumenti sanzionatori che possano dissuadere dall’esercizio di attività dannose, per contrastare situazioni di degrado irreversibile dell’ambiente [28]. Insomma, qualora emergano emissioni o prodotti in grado di provocare danni irreversibili all’ambiente, le attività dannose o il consumo dei prodotti inquinanti devono ritenersi vietati, se il deterioramento dell’unità fisica assunta a presupposto della pretesa riveste «caratteri di “insostenibilità” per l’am­biente e per l’individuo» [29].


4. Il controllo di compatibilità del tributo ambientale con il principio di capacità contributiva

Le teorie che assegnano ai tributi ambientali natura commutativa, inserendoli tra le tasse, non ne verificano la compatibilità con la capacità contributiva perché, come confermato pure dalla giurisprudenza costituzionale [30], non essendo possibile, in tali ipotesi, scorgere il carattere solidaristico del prelievo, escludono la riferibilità del canone a questa tipologia di prestazione tributaria, a cui si applicherebbe, invece, il principio del beneficio o della controprestazione, in forza del quale, a fronte del versamento eseguito dal contribuente, l’ente pubblico provvede ad erogare i beni o i servizi richiesti [31]. Nella specie, la tassa verrebbe ricollegata all’attività di risanamento ambientale, posta in essere dall’ente pubblico a seguito di un’apposita richiesta, a prescindere dalla capacità contributiva dell’autore della condotta inquinante misurata tramite indici economici [32]. Per contro, l’orientamento che qualifica il tributo ambientale in termini d’imposta ha la necessità d’individuare nella fattispecie una manifestazione di ricchezza da assoggettare ad imposizione, sul presupposto che l’unità fisica fonte di pregiudizio per l’ambiente è fondamento del prelievo solo se conforme al principio di capacità contributiva [33], limite alla discrezionalità del legislatore – al quale è inibito di sottoporre al tributo fatti non espressivi di ricchezza – e garanzia per il contribuente, consapevole di poter essere gravato dall’one­re fiscale solo in presenza di situazioni tali da denotare un’attitudine alla contribuzione [34]. In realtà, il legislatore domestico, nel dare attuazione al principio “chi inquina paga”, ha utilizzato prevalentemente strumenti di carattere non tributario (quali i certificati ambientali e i permessi negoziabili [35]) o figure di dubbia natura (ad esempio, le tariffe), relegando la questione ad un piano marginale [36]. La querelle non può, tuttavia, essere esautorata o sminuita in ragione del substrato sovranazionale da riconoscere alle problematiche ambientali, che porterebbe a preoccuparsi della compatibilità delle tecniche d’intervento predisposte a livello nazionale con il sistema unionale, ma non della conformità delle forme di prelievo ambientale ai principi cardini [continua ..]


5. Le molteplici declinazioni assunte dalla capacità contributiva

Sebbene le ricostruzioni ispirate ai principi di solidarietà e di uguaglianza (artt. 2 e 3 Cost.) focalizzino l’attenzione sulla funzione redistributiva della ricchezza tra i consociati – nei limiti delle potenzialità di ciascuno – e sul razionale riparto degli oneri derivanti dalla partecipazione alle spese pubbliche [37], non sempre risulta agevole coniugare i tributi ambientali con il principio di capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost.) [38]. Proprio tale difficoltà ha condizionato inevitabilmente la diffusione in ambito domestico dei tributi ambientali in senso stretto, caratterizzati da una relazione diretta tra gli elementi costitutivi della fattispecie imponibile e il fatto, oggettivo e materiale, fonte di deterioramento ambientale [39]. Dal punto di vista giuridico, quindi, il problema risiede nel fornire giustificazione, in termini costituzionali, a forme di prelievo idonee a colpire fattispecie che, pur rivestendo preminente interesse pubblico, non sempre assurgono ad indice di ricchezza [40]. Difatti, i beni ambientali, in quanto extra commercium, sono caratterizzati da un alto valore d’uso, ma pure dalla mancanza di un valore di scambio a cui poter commisurare il tributo: è il caso delle emissioni inquinanti, nelle quali, malgrado l’evidenza del pregiudizio arrecato all’ambiente, appare alquanto difficile stabilire una correlazione tra l’evento dannoso e la capacità economica manifestata dal soggetto agente [41]. Nella tradizione storica [42], la capacità contributiva è stata intesa in senso statico, secondo una definizione che – in una prospettiva garantista – l’ha circoscritta ad indici che denotano l’attitudine alla contribuzione, attraverso il ri­ferimento al reddito, al patrimonio e al consumo, ossia ad entità sintomatiche di forza economica e di ricchezza spendibile [43]. In seguito, la nozione è stata estesa ad altri parametri che hanno assegnato rilievo al concorso alla spesa pubblica. In quest’ottica, che ha valorizzato la posizione dei padri costituenti, la capacità contributiva, non immedesimandosi in fattispecie tipizzate, ma riferendosi alla situazione personale del contribuente, ha assunto la fisionomia di una “scatola vuota”, ossia di un contenitore, da riempire con indici concretamente ritenuti manifestazione di [continua ..]


6. La fattispecie imponibile come indice di capacità contributiva. L’economicità del tributo ambientale

Tanto premesso, focalizzando l’attenzione sui tributi ambientali, è necessario, anzitutto, accertare come l’evento che determina il danno ambientale possa ritenersi indice di capacità contributiva, in ragione dell’oggettiva difficoltà di ravvisare nel mero “fattore inquinante” un’entità suscettibile di valutazione economica [50]. È indiscutibile che, «nel caso di imposte ambientali in senso stretto, la produzione, il consumo, l’attività inquinante o la risorsa naturale scarsa assunte come fattispecie imponibili dovranno denotare capacità contributiva non potendo comunque venire meno il presidio costituzionale posto dall’art. 53 della Costituzione, nonostante la riconducibilità della tutela ambientale ad altri principi costituzionali (in primis l’art. 32 avente ad oggetto la tutela della salute)» [51]. In realtà, per esigenze di conformità ai principi costituzionali, anche i tributi con finalità ambientale dovranno assumere a fattispecie imponibile i «tradizionali indici di capacità contributiva», pur se sorretti da una destinazione ambientale [52]. A tal fine, secondo una prima ricostruzione, l’effetto inquinante del prodotto o dell’attività soggetta ad imposizione potrà fungere da parametro di determinazione quantitativa del tributo, consentendone una quantificazione, non solo alla stregua «del valore economico del bene prodotto o consumato (come per le comuni accise)», ma pure alla luce «dell’effetto inquinante generato» [53]: quanto maggiore sarà l’impatto dannoso, tanto più incisivo sarà il carico fiscale gravante sul consumo, incentivando l’impiego di beni poco o niente affatto inquinanti [54]. Il fatto ambientale inquinante verrebbe, così, ricompreso nella fattispecie imponibile come indice di forza economica maggiore rispetto ad un presupposto omologo privo di effetti negativi per l’ambiente o fonte di effetti meno lesivi [55]. In questa luce, la res economica che origina ricchezza sarebbe identificata «nell’attività esercitata, o nel consumo del bene la cui produzione colpisce l’ambiente» e lo scopo ambientale, almeno per i tributi ambientali in senso lato, sarebbe «distinto dal presupposto, anche se con esso [continua ..]


7. La conformità del tributo ambientale al principio di capacità contributiva per il tramite del canone “chi inquina paga”. La distinzione dei tributi ambientali sui consumi dalle imposte sul consumo in cui l’ambiente esplica una funzione extrafiscale

Acquisito il risultato della funzionalità ambientale, il principio “chi inquina paga”, lungi dal dare prevalenza all’interesse all’ambiente sugli altri interessi protetti, impone di verificare la conformità delle misure fiscali ai precetti costituzionali, in primis ai principi di capacità contributiva e di uguaglianza [63]. Le difficoltà derivanti dalla commisurazione dei tributi ambientali al pregiudizio arrecato all’ambiente e le complessità insite nell’individuazione della capacità economica manifestata dal soggetto agente hanno suggerito la diretta applicazione del principio “chi inquina paga” [64], facendolo assurgere a fatto-indice di capacità contributiva in grado di legittimare il tributo a carico di colui che ha posto in essere la condotta inquinante [65] e di parametrarne la forza economica ai costi di ripristino ambientale: la giustificazione costituzionale dei tributi ambientali verrebbe, in tal modo, ricollegata alla responsabilità del­l’autore dell’azione lesiva, dando luogo ad un utilizzo “improprio” dello strumento fiscale in un’ottica sanzionatoria e risarcitoria [66]. In realtà, un’imposizione basata sul principio “chi inquina paga”, generando prestazioni di natura risarcitoria, sanzionatoria ed indennitaria, non sembrerebbe aderente all’art. 53 Cost., in mancanza di un nesso – anche solo mediato – con la concreta capacità contributiva manifestata dal soggetto agente [67]. Poiché gran parte degli oneri di abbattimento dell’impatto ambientale è riconducibile all’ordinario ciclo produttivo «(ed è questo il postulato principale del “chi inquina paga”), non sempre i maggiori costi sostenuti dalle imprese e dai privati» per ridurre gli effetti inquinanti della propria attività o per far fronte alle funzioni di ripristino e di riparazione ambientale «rappresentano forme di contribuzione alla realizzazione degli interessi pubblici suscettibili di autonomo apprezzamento sociale» [68]. In merito, è difficile giustificare la conformità all’art. 53 Cost. di un prelievo avente per presupposto una fattispecie che, pur incidendo direttamente su beni d’importanza primaria, non sempre è indice di ricchezza: è il caso [continua ..]


8. La valorizzazione del bene “ambiente” quale “cespite di lusso”. L’utilizzo “improprio” dell’ambiente quale fatto-indice di capacità contributiva

Dal punto di vista della capacità contributiva, la ricostruzione fornisce giustificazione al tributo che colpisce il consumo di beni ambientali scarsi [75], come l’acqua, le matrici naturali e le risorse culturali, con conseguente riduzione della possibilità di godimento da parte degli altri consociati [76]: ove il soggetto passivo svolga un’attività imprenditoriale, la capacità contributiva si sostanzia in una riduzione del livello dei costi di produzione e in un aumento dei ricavi conseguiti anche grazie allo sfruttamento delle predette risorse [77]. In queste ipotesi, la valutazione economica del presupposto riguarda il consumo, in considerazione della ridotta diffusione di tali beni e della perdita di valore economico da essi subita a seguito del loro esaurimento o depauperamento [78]: l’ambiente, piuttosto che costituire mero oggetto di tutela, assurge ad elemento interno alla fattispecie tributaria, acquisendo portata generale e divenendo presupposto dell’imposizione, alla stregua di un fatto-indice di capacità contributiva [79]. In particolare, per l’importanza assunta, è l’utilizzo “improprio” del bene ambiente (rectius, il suo consumo o inquinamento), in quanto indice di ricchezza, a rivestire valenza economica, soprattutto nell’ambito delle imposte sui consumi, in cui la tassazione non inibisce la produzione o il consumo, limitandosi, piuttosto, ad imporre un costo aggiuntivo a carico dell’inquinatore [80]. L’impiego di prodotti inquinanti nello svolgimento di un’attività economica incide negativamente sui diritti della collettività, in ragione del pregiudizio arrecato all’ambiente, divenendo indice di capacità contributiva (pure in mancanza di una consistenza patrimoniale in ordine al presupposto del tributo) e giustificando la previsione di un’imposta ambientale a carattere generale che, oltre a ridurre, in maniera significativa, le disuguaglianze sociali, consente di prevenire i danni all’ambiente [81]. La ripartizione della spesa pubblica avviene, così, in base alle utilità derivanti dalla disponibilità di beni di pubblica utilità (nella specie, quelli ambientali) che vengono sottratti alla collettività: i beni ambientali – attenendo all’in­tegrità fisica, alla salute, alla promozione culturale e [continua ..]


9. La difficoltà di valorizzare i tributi che colpiscono le emissioni inquinanti e le altre entità non reddituali o non patrimoniali. Il nesso tra i carichi pubblici e l’obbligo di contribuzione

Ciononostante, anche questa esegesi non è del tutto esente da criticità, in ragione della difficoltà di valorizzare i tributi che colpiscono le emissioni inquinanti o altre entità non reddituali o non patrimoniali, ossia fattispecie non collegate al consumo di beni e, come tali, non idonee a manifestare ricchezza attuale e concreta [92]. Il rilascio di emissioni inquinanti, infatti, non presenta valenza patrimoniale, ragion per cui difficilmente può ex se costituire espressione di capacità contributiva, a differenza del consumo di beni inquinanti, condotta di sicuro rilievo patrimoniale, che consente di conciliare la finalità ambientale con il principio sancito dall’art. 53 Cost. [93]. Per tentare di risolvere la questione, può soccorrere la distinzione tra le emissioni inquinanti prodotte nell’ambito di un processo industriale e quelle prodotte da una diversa attività umana: nella prima ipotesi, poiché il presupposto del tributo è lo stesso delle accise [94], ossia la produzione di un bene destinato al mercato, il cui valore è pari al guadagno che deriva dalla produzione, occorre tenere conto dell’effetto inquinante che consegue all’attività produttiva; nella seconda, per contro, mancando una produzione destinata al mercato, suscettibile di valutazione economica, la capacità contributiva, quale limite implicito all’imposizione, può essere individuata nell’utili­tà che l’attività inquinante apporta all’autore, determinata in maniera comparativa rispetto ad un’altra attività umana, che, pur realizzando un risultato analogo, non genera emissioni inquinanti o le genera in maniera ridotta [95]. In quest’ultima ipotesi, il valore economico della produzione sarà correlato all’utilità relativa ritraibile, rispetto ad altre produzioni non inquinanti, ossia al guadagno determinato in termini di beneficio individuale. Perciò, l’istituzione del tributo ambientale sarà preclusa ogniqualvolta all’attività inquinante non se ne contrapponga un’altra non inquinante, data l’impossibilità, nella specie, di procedere ad una valutazione comparativa [96]. Il prelievo potrà considerarsi in linea con il principio di capacità contributiva, invece, qualora sia diretto a colpire [continua ..]


10. La capacità contributiva come criterio equo e ragionevole di riparto delle spese di ripristino ambientale

In proposito, al fine di superare i profili d’illegittimità costituzionale del regime dei tributi ambientali, si potrebbe far riferimento alla capacità contributiva come criterio equo e ragionevole di riparto del carico pubblico tra tutti i consociati [101]. In quest’accezione, l’art. 53 Cost. permetterebbe di ripartire tra tutti i consociati le spese pubbliche in modo “ragionevole”, vale a dire in maniera coerente e razionale, alla stregua dei principi di solidarietà e di uguaglianza [102]. La ricostruzione – valorizzando (attraverso l’interazione delle fonti) i principi di uguaglianza, di razionalità e di coerenza delle politiche sociali, oltre che quello solidaristico – supera gli orientamenti che individuano nella capacità contributiva una mera manifestazione di forza economica del soggetto passivo, assegnando all’art. 53 Cost. la funzione di ripartire – in maniera equa e ragionevole – i carichi pubblici tra i consociati, alla stregua di un criterio prettamente “distributivo”, espressione di una capacità contributiva “differenziata” [103]. Nella prospettiva tracciata, visto che il riparto esige «l’individuazione di posizioni differenziate dei singoli contribuenti, cui ricollegare nell’an e nel quantum il concorso alle pubbliche spese» [104], i fatti e le situazioni socialmente rilevanti, espressivi di potenzialità economica, potrebbero identificar­si «nell’unità fisica che incide sull’ambiente oggettivamente inteso o forse, ancora meglio, nello stesso comportamento umano che procura qualche danno all’ambiente, indipendentemente dal fatto che esso si ripercuota sul­l’uo­mo» [105]. L’impostazione trova sostegno nella circostanza che l’art. 53 cost. non si limita ad individuare singole fattispecie tipizzate di capacità contributiva, quali il reddito, il patrimonio e il consumo, ma presuppone una vasta gamma di tributi e di indici, che, per ciascuna ipotesi applicativa, richiedono «un effettivo collegamento con fatti e situazioni valutabili pur sempre economicamente e, comunque, concretamente espressivi di potenzialità economica» [106]. In questa luce, l’imposizione “verde”, lungi dal colpire tradizionali indici di ricchezza, si caratterizza per [continua ..]


11. Il legame tra la capacità contributiva, il principio di uguaglianza e il principio “chi inquina paga” nella compensazione delle economie e diseconomie esterne

Il nesso tra la capacità contributiva, il principio di uguaglianza e il principio “chi inquina paga” porta a ribadire che l’inquinatore, nel momento in cui provoca un pregiudizio alla collettività, imputandole il danno, non può non farsi carico della compensazione: infatti, il tributo ambientale è lo strumento più appropriato per soddisfare la “compensazione delle economie e diseconomie esterne” [111]. Il criterio di riparto, costituito dalla “internalizzazione delle esternalità am­bientali”, deve tener conto del rapporto tra le emissioni e il danno potenziale sopportato dalla collettività, senza pretendere «di quantificare il relativo costo e senza istituire, comunque, una diretta correlazione con l’opera di risanamento spettante all’ente pubblico» [112]. La misurabilità economica dell’emissione inquinante, elemento essenziale della capacità contributiva come criterio di riparto, è «garantita non dalla diretta valorizzazione, di fatto impossibile, dell’emissione stessa, ma dalla determinazione dell’entità degli svantaggi che essa può arrecare all’ambiente anche in termini di comparazione con altre emissioni meno o niente affatto inquinanti» [113]. Un criterio di riparto equo e ragionevole potrebbe desumersi proprio dal principio “chi inquina paga”, che presenta molteplici interferenze con i requisiti dei tributi paracommutativi, primo tra tutti la responsabilità individuale per la spesa pubblica causata al fine di risanare il danno all’ambiente [114]. Il limite di tale ricostruzione, di matrice civilistica, è quello di limitarsi a fornire una lettura del tributo ambientale in chiave meramente risarcitoria [115]. Ciononostante, come testimonia l’esperienza nazionale e comunitaria[116], detto criterio è «particolarmente congeniale alle imposte sui consumi che per loro natura possono essere caratterizzate da una relazione diretta e causale tra presupposto ed unità fisica produttiva del danno ambientale» [117].


12. Il tributo ambientale come “contributo” al costo di risanamento dell’am­biente

Il legame tra l’unità fisica, il pregiudizio all’ambiente e il costo di risanamento, a sua volta, consente di rappresentare il tributo ambientale come «“beneficio”, e cioè come tributo costruito – soprattutto in termini di base imponibile – tenendo conto del rapporto con il costo (in termini di servizio di risanamento) sopportato dalla collettività» [118]. Quest’ultimo sarà ripartito tra gli autori delle condotte inquinanti in proporzione al servizio di risanamento, perché quanto più saranno espletate le attività di deterioramento ambientale, tanto più si fruirà del servizio di risanamento [119]. Dal punto di vista teorico, gli orientamenti declinati riflettono due diverse concezioni della capacità contributiva, una cooperativa-solidaristica e l’altra razionalistica, non contrapposte, ma formulate nell’ottica del concorso alla spesa pubblica per ricomprendervi tanto i tributi con finalità distributiva, quanto quelli con funzione compensativa [120]. Nella prima ipotesi, il tributo colpisce la ricchezza in un’ottica distributiva, facendo riferimento ad un indice di forza economica “qualificata”, misurabile monetariamente e rispondente a parametri di equità, coerenza e ragionevolezza, in grado di esprimere un criterio di riparto solidaristico, estrinsecazione di tutte le forme di vantaggio sociale (sia aventi natura patrimoniale, che relative alla soddisfazione di interessi o bisogni esistenziali)[121]; nella seconda, la prestazione tributaria ha vocazione compensativa, mirando a reintegrare il consumo delle risorse pubbliche e a correggere le diseconomie, senza essere collegata ad un fatto imponibile idoneo ad esprimere una capacità economica “qualificata” [122]. Per tale ragione, in questa ipotesi, il criterio del riparto equo e ragionevole è insito nella spesa pubblica generata ovvero nell’esigenza di compensare, con il tributo, il vantaggio ricevuto dal contribuente grazie al servizio pubblico o al godimento del bene pubblico [123]. Seguendo questo modello, nel presupposto del tributo, accanto a componenti reddituali disponibili o scambiabili sul mercato, vengono inclusi ulteriori elementi non tipizzati, privi di siffatti caratteri e solo in astratto misurabili monetariamente, comunque suscettibili di esprimere [continua ..]


NOTE