Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2280-1332 / EISSN 2421-6801
G. Giappichelli Editore

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Tassazione della digital economy: l'imposta sui servizi digitali (ISD) (di Maurizio Logozzo)


Partendo dalle proposte di tassazione dell’economia digitale, da parte dell’OCSE e della Commissione UE, il presente contributo analizza l’evoluzione della web tax italiana e dell’attuale sistema impositivo interno, soffermandosi sulle criticità di tale nuovo tributo. Viene poi affrontato il tema della compatibilità dell’imposta sui servizi digitali e, più in generale di altre forme d’imposizione adottate da altri Paesi europei, con l’ordinamento eurounitario.

Taxation of digital economy: the digital services tax

Starting from the proposals made by the OECD and the European Commission about the taxation of the digital economy, the article analyses the evolution of the Italian web tax and the current domestic tax system, focusing on the criticalities of this new tax. The issue of the compatibility of the various digital services taxes introduced in Italy and in other Member States with the European legal order is then addressed.

SOMMARIO:

1. Le proposte di tassazione dell’economia digitale da parte dell’OCSE e della Commissione UE - 2. L’evoluzione della web tax italiana - 3. L’attuale sistema impositivo: sintesi degli elementi strutturali dell’imposta sui servizi digitali (ISD) - 4. Profili critici dell’imposta sui servizi digitali - 5. Compatibilità dell’imposta sui servizi digitali con l’ordinamento eurounitario - 6. Considerazioni conclusive - NOTE


1. Le proposte di tassazione dell’economia digitale da parte dell’OCSE e della Commissione UE

L’economia digitale ha determinato e sta determinando un progressivo mutamento dell’economia tradizionale e delle nostre stesse abitudini quotidiane poiché ha modificato le modalità con le quali interagiscono imprese e consumatori. L’impatto si avverte in modo sempre più marcato non solo con riguardo allo scambio di beni, ma anche alle prestazioni di servizi, attraverso transazioni la cui sostanza digitale rende non solo evanescente, ma addirittura superflua la presenza fisica dell’operatore nel mercato di sbocco. Difatti, molti servizi possono essere prestati da remoto e i beni essere ceduti anche da imprese estere, che dispongono di mere piattaforme di raccolta di ordini. Il rapporto tra consumatore e operatore muta particolarmente con riguardo alla necessaria intermediazione che l’economia digitale presuppone. Anzi, lo stesso intermediario assume carattere essenziale, e divenendo egli attore principale della transazione, questa non può avvenire senza il suo intervento; il che consente di imporre oneri tali da partecipare, nella sostanza, ad una frazione cospicua dei ricavi legati alle suddette transazioni. Le piattaforme virtuali, in effetti, apportano un significativo valore aggiunto poiché non costituiscono solo una “vetrina”, ma sono “aggregati di clientela”, e utilizzando algoritmi e comparatori sono in grado di indurre all’ac­quisto; esse inoltre prestano servizi collaterali, come trasporto, assistenza, etc., che magari il produttore non è in grado di assicurare. In un simile contesto può risultare arduo individuare il momento dello scambio o quello della prestazione del servizio perché non è agevole comprendere quando, in quale luogo e in quali termini si crei ricchezza. Anzi, se da un lato alcuni servizi, demonetizzati, paiono essere prestati gratuitamente – mentre l’operatore, al contrario, raccoglie dati che aumentano il suo potenziale distributivo – altre prestazioni, allo stesso tempo, sono ascrivibili invece nell’area della condivisione, con sempre maggiori interrelazioni tra economia digitale e sharing economy. Pertanto, l’economia digitale, o “economia delle piattaforme”, ha imposto modifiche di portata rilevante, anche nel modo in cui interagiscono imprese e consumatori: si tratta di un mondo dove “i beni” sono sempre meno tangibili e sempre più [continua ..]


2. L’evoluzione della web tax italiana

Pochi ricordano che un primo tentativo di tassazione della ricchezza prodotta dalle imprese digitali lo si è avuto già nel corso dell’anno 2013 [21]. Difatti, l’art. 1, comma 33, L. n. 147/2013 (c.d. Legge di stabilità per il 2014) [22] proponeva l’introduzione di una versione “ancestrale”della web tax, la quale, a dispetto del nome, non costituiva una nuova imposta [23]. Difatti, questa imponeva una serie di obblighi volti ad attrarre a tassazione in Italia le operazioni B2B (Business to Business), relative all’acquisto di spazi pubblicitari on line e link sulle pagine che visualizzano i risultati dei motori di ricerca (c.d. servizi di search advertising). Tali servizi, infatti, avrebbero dovuto essere acquistati presso soggetti titolari di partita IVA italiana (quindi, il corrispettivo sarebbe stato assoggettato ad IVA), con obbligo di effettuare i pagamenti esclusivamente tramite bonifico bancario o postale o, comunque, con altri strumenti idonei a garantire la piena tracciabilità delle operazioni e l’indicazione della partita IVA del beneficiario. L’entrata in vigore di detta normativa fu tuttavia rinviata e la stessa venne definitivamente abrogata (senza essere mai applicata) [24]. Ciò in quanto la Commissione europea, a seguito di un’indagine avviata nei confronti dell’Italia, ne evidenziò i profili di contrasto con le libertà fondamentali del Trattato e con la normativa europea in tema di IVA [25]. Successivamente, l’attenzione del legislatore italiano si era spostata sull’in­troduzione di una nuova definizione di stabile organizzazione di tipo virtuale [26], accompagnata dall’applicazione di una ritenuta alla fonte da parte degli intermediari finanziari. Più precisamente, si proponeva di introdurre una presunzione di esistenza della stabile organizzazione qualora, indipendentemente dalla presenza di mezzi materiali fissi, un soggetto non residente svolgesse nel territorio dello Stato, in via continuativa, attività digitali pienamente dematerializzate. L’esistenza della suddetta stabile organizzazione sarebbe stata subordinata al compimento, da parte del soggetto non residente, di una soglia minima di operazioni, pari a 500 unità per semestre, con un ammontare complessivo percepito non inferiore a un milione di euro nell’arco dello stesso [continua ..]


3. L’attuale sistema impositivo: sintesi degli elementi strutturali dell’imposta sui servizi digitali (ISD)

Per effetto della Legge di bilancio 2020 [31], dal 1° gennaio 2020, è entrato in vigore nel nostro ordinamento un nuovo tributo: l’imposta sui servizi digitali (ISD). Per vero, tale imposta era stata istituita con la Legge di bilancio 2019 [32], la cui vigenza è stata rinviata per via della mancata pubblicazione dei Decreti attuativi. La citata Legge di bilancio 2020 ha modificato in più parti il meccanismo applicativo della predetta imposta [33], rimanendo comunque aderente alle for­mulazioni prospettate in sede europea nella proposta di Direttiva [34]. Dal punto di vista soggettivo, sono soggetti passivi dell’imposta coloro che esercitano attività d’impresa e che, singolarmente o a livello di gruppo, nel­l’anno solare precedente abbiano realizzato congiuntamente un ammontare complessivo di ricavi, derivanti da servizi digitali, ovunque prodotti, non inferiore a euro 750 milioni e, contestualmente, un ammontare dei ricavi derivanti da “servizi digitali” realizzati nel territorio dello Stato italiano non inferiore a euro 5,5 milioni. L’ISD, quindi, si presenta come un tributo selettivo in quanto sono previste delle soglie dimensionali cumulative per individuare i soggetti incisi. L’imposta colpisce sia le imprese non residenti che quelle residenti in Italia a prescindere dalla natura dei committenti (diversamente da quanto precedentemente previsto nella “web tax 2018”, sono coinvolti dal prelievo sia i servizi B2B che B2C). Con riferimento ai gruppi societari, è prevista l’individuazione di una singola società del gruppo per l’assolvimento degli obblighi scaturenti dall’appli­cazione della nuova imposta. La legge prevede la “solidarietà” per il pagamento della ISD da parte dei soggetti residenti appartenenti al medesimo gruppo di soggetti non residenti, in modo tale che sia garantito il pagamento dell’imposta. I soggetti esteri privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato e privi di un numero identificativo ai fini IVA, i quali realizzano nel corso del­l’anno i presupposti d’imposta, devono fare richiesta all’Agenzia delle Entrate di un numero identificativo ai fini dell’imposta sui servizi digitali. Inoltre, i soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, stabiliti in uno Stato diverso da [continua ..]


4. Profili critici dell’imposta sui servizi digitali

Si rileva, anzitutto, che per la prima volta nel nostro ordinamento è stata introdotta una “imposta a tempo”, visto che l’ISD in esame, in base alla legge, sarà abrogata con decorrenza dal momento in cui entreranno in vigore delle disposizioni derivanti da accordi internazionali in materia di tassazione del­l’economia digitale [38]. Trattasi di una fattispecie del tutto nuova, l’imposta “transitoria”, una nuova categoria d’imposta, ma la mente del nostro legislatore è innovativa e ha colmato la lacuna. Mi pare evidente che la nuova imposta sui servizi digitali sia costruita secondo il modello dell’imposizione indiretta, ove la capacità contributiva è da rinvenirsi nella valorizzazione economica di specifiche operazioni digitali che conducono alla produzione di ricchezza. Un’imposta sull’erogazione o vendita di taluni servizi digitali, molto probabilmente una sorta di accisa sull’uti­lizzo/consumo di prestazioni digital, peraltro di difficile accertamento. Un primo problema che si pone è quello di ipotizzare una duplice tassazione delle operazioni in questione, sia con riguardo all’IVA che alla web tax. Va subito fugato ogni dubbio in quanto non è prospettabile, sotto questo profilo, una duplicazione d’imposizione poiché, anche sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia, la duplicazione non sussiste stante il fatto che l’IVA è tendenzialmente un’imposta plurifase, mentre l’ISD è un’imposta monofase. Peraltro, si sottolinea che l’art. 401 della Direttiva n. 2006/11/CE relativa al sistema comune dell’IVA, consente agli Stati membri di mantenere o introdurre altri tributi indiretti, tra cui le accise e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d’affari. La Corte di Giustizia ha più volte valorizzato l’assenza del carattere della generalità, rivolto a specifici settori di attività economiche, per escludere la similarità di talune imposte sul consumo con l’IVA [39]. E ancora, un tratto distintivo tra le due imposte è quello dell’assenza del meccanismo di funzionamento dell’IVA, fondato sul principio cardine della neutralità [40], che si attua attraverso gli istituti della rivalsa e della detrazione dell’imposta, [continua ..]


5. Compatibilità dell’imposta sui servizi digitali con l’ordinamento eurounitario

Occorre infine chiedersi se la nostra ISD e, più in generale altre forme d’imposizione dei servizi digitali adottate da taluni Paesi europei, siano compatibili con l’ordinamento unionale. In particolare, ci si chiede se tali forme d’imposizione implichino una potenziale restrizione delle libertà fondamentali, ovvero, come si è accennato, la violazione delle norme sull’IVA e del relativo divieto di istituire imposte alternative alla stessa, che abbiano medesimo presupposto impositivo e ne condividano i caratteri essenziali. Sotto il primo profilo [45], la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha recentemente statuito [46] che, nel caso di imprese della digital economy che operano all’interno degli Stati membri senza una presenza fisica, non sussiste alcuna violazione dei principi di libera prestazione dei servizi [47] e di non discriminazione laddove la normativa nazionale preveda l’obbligo di registrazione e di dichiarazione ai fini dell’imposta sui servizi digitali a carico dei soli soggetti non residenti, come accade nella ISD italiana. Il caso trae origine dalla web tax ungherese. Questa prevede che chiunque pubblichi annunci online, principalmente in lingua ungherese o su siti web prevalentemente di lingua ungherese, assume la qualità di soggetto passivo, indipendentemente dal luogo di residenza. In capo al soggetto passivo sussiste l’obbligo, da un lato, di dichiarare in fattura di essere tenuto al pagamento dell’imposta sulla pubblicità digitale e, al contempo, di assolvere gli obblighi di dichiarazione e di versamento dell’im­posta; dall’altro, di provvedere a registrarsi presso l’Amministrazione finanziaria ungherese ai fini dell’imposta sulla pubblicità, a meno che non fosse già registrato ai fini di una qualsiasi altra imposta. Il contenzioso è sorto a seguito di ricorso presentato dalla consociata irlandese di un noto gruppo della digital economy operante nello specifico settore della pubblicità, a seguito della contestazione del mancato rispetto degli obblighi di registrazione e di dichiarazione con comminazione delle relative sanzioni amministrative. Il giudice ungherese del rinvio ha ravvisato la potenziale violazione dei principi unionali di libera prestazione di servizi e di non discriminazione; ed invero, l’obbligo di registrazione e le sanzioni pecuniarie [continua ..]


6. Considerazioni conclusive

È evidente che l’affermazione dell’economia digitale comporti delle necessarie riflessioni sul luogo di creazione del “valore” che potrebbe essere oggetto di tassazione, evidenziando una netta asimmetria tra il luogo in cui detto “valore” è generato e quello in cui i profitti sono (o dovrebbero) essere tassati. Al fine di ristabilire le condizioni di “parità fiscale”, come si è detto, molti Stati membri hanno accolto l’invito della Commissione UE ad introdurre delle web tax “transitorie”: ad oggi, parecchi Paesi hanno adottato, o sono in procinto di farlo, una imposta sui servizi digitali. In particolare, solo per citare alcuni esempi, nel 2019 in Austria è stato presentato un progetto di legge volto ad introdurre una web tax del 5% sui ricavi pubblicitari digitali. La Repubblica Ceca ha adottato una web tax del 7%, avente ad oggetto la pubblicità web dei grandi gruppi e la vendita di dati per la profilazione degli utenti. L’Ungheria, si è visto, ha introdotto una imposta sui ricavi pubblicitari, solo su pubblicità online e in lingua magiara, già nel 2015 con un’aliquota del 5,3%, che è stata poi incrementata al 7,5% nel corso dell’anno 2017. Spagna e Francia hanno adottato la web tax nella misura pari al 3% sui ricavi generati dalle grandi società che gestiscono piattaforme digitali o attività pubblicitarie online. La ISD italiana appare essere molto simile a quella spagnola e francese, in quanto condivide con queste ultime tanto il perimetro (soggettivo e oggettivo) quanto l’aliquota (3%). Le iniziative di taluni Stati membri UE, tra cui anche l’Italia, rappresentano una reazione adeguata alla tassazione della digital economy in aderenza alla proposta di Direttiva COM (2018) 148. Tuttavia, permangono delle incertezze applicative di fondo e dei forti limiti intrinseci, uno tra tutti, la transitorietà delle misure adottate. In conclusione, ritengo che si sia raggiunto un maggior grado di consapevolezza nel tassare i profitti derivanti dall’economia digitale, ma che ciò sia effettivamente ed efficacemente possibile solo tramite una leale collaborazione e una cooperazione unitaria tra gli Stati. Occorre l’elaborazione di un criterio di tassazione coerente e certo da applicare in modo uniforme in tutti gli Stati interessati e che consenta una [continua ..]


NOTE