Secondo la Cassazione l’immobile acquistato dai coniugi in regime di comunione se destinato all’attività d’impresa svolta esclusivamente da uno dei due, all’atto della cessione genera una plusvalenza realizzata in regime d’impresa e quindi imputabile al solo coniuge imprenditore. La conclusione raggiunta, pur condivisibile, risulta nelle motivazioni troppo sbilanciata su un approccio che assegna alle norme tributarie una connotazione “particolaristica”.
According to the Supreme Court, the real estate purchased by the spouses under the matrimonial property regime and used for the business activity carried out exclusively by one of the two, generates a capital gain attributable only to the entrepreneur spouse. The conclusion reached, although agreeable, appears grounded on motivations excessively unbalanced towards an approach that assigns a “particularistic” connotation to tax rules.
Keywords: legal community, entrepreneur spouse, allocation to business activity, income tax, capital gain.
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1. Premessa - 2. Applicabilità dell’IVA per la cessione nell’esercizio dell’attività del bene in comunione - 2.1. L’influenza sulla considerazione unitaria dell’atto ai fini IVA del regime di comunione de residuo o di titolarità esclusiva dei beni ceduti - 3. Regime di comunione e imputazione del reddito interferenze con le previsioni codicistiche: l’imputazione del reddito da attività separata - 3.1. Segue: … e il trasferimento di beni strumentali all’impresa del solo coniuge imprenditore - 4. Conclusioni - NOTE
Con la pronuncia in rassegna la Cassazione afferma il principio per cui l’immobile acquistato dai coniugi in regime di comunione se destinato all’attività d’impresa svolta esclusivamente da uno dei due, all’atto della cessione genera una plusvalenza realizzata in regime d’impresa e quindi imputabile al solo coniuge imprenditore. L’arresto in esame sollecita una riflessione in ordine all’eventuale interferenza tra le regole civilistiche attinenti il regime di comunione legale e le norme fiscali; la pronuncia rievoca inoltre la questione, dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, se l’atto dispositivo dei beni in comunione si debba considerare effettuato nella sua totalità o parzialità nell’esercizio di un’impresa commerciale ai fini dell’applicazione dell’IVA e se il reddito derivante da suddetti atti dispositivi realizzati in costanza di comunione legale o separazione sia diversamente imputabile in ragione del regime civilistico cui è soggetto.
La questione di cui si discute è stata in passato oggetto di numerose e contrastanti pronunce. La possibile interferenza tra regole fiscali e disciplina della comunione legale ha dato luogo a diverse incertezze interpretative con riferimento all’imposizione sui trasferimenti immobiliari e specificamente in relazione al principio di alternatività IVA – registro. In relazione alla cessione del bene in comunione destinato all’attività d’impresa esercitata da uno solo dei due coniugi si poneva infatti il problema se l’intera operazione dovesse considerarsi rilevante per l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto o dovesse invece essere valutata frazionatamente con l’assoggettamento ad entrambi i tributi in relazione alle quote ideali dei comunisti. Secondo un primo orientamento l’operazione di edificazione e rivendita dell’immobile in comunione legale, benché solo uno dei due coniugi fosse imprenditore, avrebbe dovuto dar luogo all’applicazione dell’IVA ove potesse ravvisarsi tra i due soggetti l’esistenza di una società di fatto. L’assoggettamento ad IVA della cessione veniva, dunque, subordinato all’esistenza, anche di fatto, di un soggetto societario [1]. Tale ultima circostanza non era tuttavia riconosciuta in ragione della sola sussistenza del regime di comunione legale sul bene trasferito ma doveva essere dimostrata in base alle circostanze concrete [2] valendo, in caso contrario, la regola per cui gli atti di trasferimento di immobili appartenenti a coniugi in regime di comunione legale, di cui uno solo fosse imprenditore, sarebbero stati da assoggettare ad IVA per la quota del coniuge imprenditore, e ad imposta proporzionale di registro per l’altra quota [3]. Tale ultima soluzione valorizzava il sistema della comunione legale, come configurato dalla L. n. 151/1975 mediante la sostituzione delle previsioni codicistiche, nel presupposto che essa non potesse intendersi quale entità patrimoniale indissociabile con irrilevanza del diritto di proprietà dei coniugi sulle quote di rispettiva spettanza [4]. L’orientamento in questione prestava tuttavia il fianco alle critiche ove, per un verso, avvicinava sotto il profilo sostanziale la comunione al modello della “contitolarità di diritti” e non a quello – che le è proprio – della [continua ..]
Nelle pronunce cui si è fatto sin qui riferimento, tuttavia, i principi esposti si affermano senza preventiva indagine civilistica in particolare sull’appartenenza del bene alla comunione immediata o a quella de residuo [11]. Solo nell’ultimo caso citato [12] la Cassazione si sofferma su questo aspetto imputando al giudice di merito – che aveva attribuito de plano il bene medesimo alla comunione legale immediata dei coniugi venditori – la mancanza di non aver chiarito se il cespite in esame dovesse invece ritenersi assoggettato alla disciplina di cui all’art. 178 c.c. [13]. In definitiva non è chiaro se la conclusione raggiunta in giurisprudenza, pur essendo nel complesso argomentata, potrebbe risentire delle difficoltà che generalmente s’incontrano nell’esegesi delle norme relative alla comunione ovvero nell’interpretazione degli atti dispositivi dei coniugi e, più a monte, nel loro corretto confezionamento. Gli artt. 177, 178 e 179 del codice civile, distinguono infatti, tra beni che cadono in comunione immediata, beni che cadono in comunione de residuo, e beni personali dei coniugi. In base all’art. 178 c.c. «i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa». Tale previsione – in coerenza con contesti e modelli sociali attualmente recessivi – rispondeva alla logica di “compensare” il coniuge non imprenditore ove non contribuisse all’attività dell’altro ma a mansioni domestiche, in vario modo utili e funzionali alla stessa attività d’impresa. È stata prevista, così, la comunione differita, al momento dello scioglimento del regime, sui beni strumentali all’impresa costituita dopo il matrimonio [14]. Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, il bene può anche essere escluso dalla comunione. A tal fine è condizione necessaria la partecipazione all’atto dell’altro coniuge non acquirente, ai sensi dell’art. 179, comma 2, c. c., ma per l’assoggettamento al regime dei beni personali del cespite acquistato, non serve solo il concorde [continua ..]
Alla luce delle considerazioni che precedono la pronuncia qui in commento sembra porsi in una ideale linea di continuità con la giurisprudenza appena esaminata, benché il tema debba essere declinato con riferimento all’imposizione sul reddito. È noto che la scelta del legislatore tributario, dopo la pronuncia d’incostituzionalità sul “cumulo” [22], sia stata per la tassazione separata dei redditi relativi ai beni in comunione legale, ciò in ossequio alla scelta di non riconoscere soggettività tributaria alla famiglia. Si è preferito disporre (con l’art. 4, lett. a) del TUIR) l’imputazione del reddito relativo ai beni in comunione legale in pari quote o comunque nella misura stabilita dalle convenzioni intercorse tra i coniugi ai sensi dell’art. 210 c.c. Il criterio dell’imputazione ripartita non opera tuttavia per i redditi che derivano dall’attività separata, professionale o imprenditoriale, di ciascun coniuge (ultimo periodo dell’art. 4, lett. a). I proventi derivanti dall’attività del singolo coniuge sono infatti a lui imputati «in ogni caso» per il loro intero ammontare. Quest’ultima previsione è stata introdotta dall’art. 26, comma 1 del D.L. n. 69/1989, prima di tale modifica era dibattuta la possibilità che i redditi derivanti dall’attività separata di ciascun coniuge potessero essere inclusi in comunione immediata con una disposizione convenzionale e dunque imputati in pari quote ai coniugi stessi [23]. L’art. 26 menzionato, oltre che escludere per il futuro la rilevanza delle convenzioni che includessero nella comunione i redditi personali, ha anche operato per il passato per quelle stipulate nella vigenza del D.P.R. n. 597/1973. Dopo le modifiche normative, in relazione all’ambito applicativo dell’art. 4 (lett. a) il problema si è incentrato sulla rilevanza delle previsioni civilistiche che regolano l’ingresso in comunione non immediata, ma de residuo, dei medesimi proventi richiamati dall’art. 4 citato e dei beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi. Ai sensi del art. 177, c.c. rientrano in comunione de residuo «i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati» (art. 177, lett. [continua ..]
La pronuncia in commento pone un’ulteriore questione che potrebbe interessare la previsione di cui all’art. 178 c.c. Nel caso in esame si tratta della rilevanza ai fini reddituali di atti realizzativi aventi ad oggetto beni in comunione suscettibili di generare proventi riferibili all’attività separata del coniuge e dell’individuazione delle regole di imputazione di tali proventi. Con lo scioglimento della comunione legale, in ossequio alle previsioni codicistiche i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi sono da attribuirsi alla comunione, ma come abbiamo visto, con la possibile insorgenza di un diritto di credito, non di un diritto reale. Il dubbio che si pone è, allora, se il reddito che si determina al realizzo del bene debba essere attribuito al solo coniuge imprenditore, potendosi prescindere dalla proprietà personale o comune dei beni strumentali all’esercizio dell’attività, ovvero si debba necessariamente determinare frazionatamente la qualificazione e l’imputazione del reddito. È questo in effetti il nodo interpretativo che la Cassazione scioglie nell’arresto in commento muovendo, non già dall’individuazione dei poteri dispositivi sul bene o dei diritti spettanti ai coniugi in forza delle norme sostanziali, ma dalla stessa disciplina fiscale. La soluzione adottata dalla Cassazione – che era già stata proposta in dottrina [27] – fa leva infatti unicamente sulla previsione di cui all’art. 4 del TUIR e, come nel caso affrontato nella precedente giurisprudenza in relazione all’applicazione dell’IVA, non si pone in conflitto con le norme sostanziali ma in deroga ad esse. In altri termini, riconosciuta l’irrilevanza nel caso di specie delle previsioni di cui agli art. 177 e 178 c.c. richiamate dall’Agenzia delle Entrate a sostegno del recupero effettuato, la Cassazione non si sofferma sull’esistenza di un regime comunione legale o semplice contitolarità sul bene ceduto ma valorizza l’utilizzo e la destinazione del bene ai fini della produzione del reddito ascrivibile all’attività separata del coniuge. La soluzione appare da condividere non tanto per le argomentazioni esposte quanto per gli esiti raggiunti. Per addivenire ad una soluzione effettivamente compiuta va posta, in primo luogo, nella giusta luce la rilevanza della [continua ..]
In definitiva, la Corte nel caso di specie pare porsi il dubbio se la questione da affrontare debba risolversi con una soluzione unitaria (sul piano civilistico e fiscale) o sia possibile ragionare solo su piano tributario individuando eventuali peculiarità che potrebbero incidere sulle soluzioni da adottare. L’approccio metodologico seguito, finalizzato a tenere distinti i piani in cui operano le norme sostanziali e quelle fiscali e ad individuare una deroga alle prime potrebbe risultare pienamente apprezzabile solo ove sottendesse una corretta impostazione delle problematiche civilistiche correlate. La pronuncia annotata elude invece l’indagine in ordine all’effettivo regime civilistico cui assoggettare il bene e, se pare comunque condurre ad un risultato compatibile con il regime sostanziale del cespite ceduto, risulta troppo sbilanciata su un approccio che assegna alle norme tributarie una connotazione “particolaristica”, non sussistente almeno nel caso di specie. Si tratta di una opzione interpretativa che pare richiamare il tema, di recente nuovamente dibattuto, dell’autonomia del diritto tributario rispetto agli altri rami dell’ordinamento [32]. In questo campo, la visione per cui il diritto tributario, pur non essendo una materia “autosufficiente” – nel senso che essa richiama istituti già disciplinati nell’ordinamento e attinge ad altre esperienze giuridiche [33] – sia presieduto da autonomi principi di sistema [34], appare da privilegiare. L’adozione di una tale impostazione non dovrebbe tuttavia condurre ad una chiusura su un particolarismo autoreferenziale, ma consentire di cogliere l’evoluzione degli istituti della fiscalità, nella consapevolezza della loro spiccata interdisciplinarietà, con le loro connessioni con istituti appartenenti ad altri rami dell’ordinamento, e le relazioni con le vicende degli assetti istituzionali e sociali [35].