Non è un bel diritto quello che si legge nel comma 5 bis dell'art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, introdotto dalla L. n. 130/2022. Eppure qualcosa di importante la norma riesce a dirlo. La prima indicazione è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova per cui i fatti costitutivi del credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione. L'altra attiene al grado di robustezza che l'apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima. Infine, il comma 5 bis introduce il divieto di prove incoerenti con il diritto sostanziale che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o come condizioni oggettive di imponibilità. Ancor prima la norma pare volere dare un'altra indicazione, di portata generale. È possibile che in essa si annidi l'intento di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà o di correttezza del contribuente accertato. Il lavoro si sofferma su tutti questi aspetti nel tentativo di offrirne un inquadramento sistematicamente coerente.
It's not a nice law what one reads in the paragraph 5-bis of Art. 7, Legislative Decree no. 546 of 1992, introduced by Law no. 130 of 2022. Yet the rule manages to say something important. The first indication is a confirmation of the rule on distribution of the burden of proof, according to which the constitutive facts of the tax claim must be proved by the tax authorities. The other concerns the degree of robustness that the evidentiary apparatus must possess, in order to allow the judge to consider the tax authorities' claim itself legitimate. Finally, paragraph 5-bis introduces the prohibition of evidence that is inconsistent with the substantial law, which grounds the tax claim on elements that the latter does not qualify as constituting the tax situation or as objective conditions of taxability. Even before that, the provision seems to want to give another indication of general scope. It is possible that it wants to shed light, among the seeds of the constitutional State, on the presumption of taxpayer’s honesty. The paper focuses on all these aspects, in the attempt to offer a systematically coherent framework.
1. La riforma della L. n. 130/2022 sull’onere della prova, sulle prove e sul giudizio: “eppur si muove” - 2. L’onestà o la correttezza presunta del contribuente: un seme costituzionale portato allo scoperto - 3. La presunzione d’onestà e l’architrave costituzionale del principio personalistico - 4. La ripartizione dell’onere della prova - 5. La fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio” - 6. La questione della presunzione semplice - 7. La presunzione semplice nelle leggi sull’accertamento: un ritorno all’auspicato rigore del passato? - 8. La questione della presunzione “semplicissima” - 9. La coerenza della prova con il diritto sostanziale - 10. Conclusione: l’impervio cammino della “giustizia nell’imposizione” - NOTE
Per il comma 5 bis dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, introdotto dalla L. n. 130/2022, l’amministrazione «prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni» [1]. Non è un bel diritto quello che si legge in questa disposizione: una mistura di parole prive di sorveglianza anche stilistica, un concentrato di concetti mal posti e forse mal conosciuti [2]. Anche per questo è probabile che essa, contrariamente agli intendimenti, alimenterà ulteriore contenzioso perfino sul significato fatto palese dalle parole in essa stessa contenute. Eppure qualcosa di importante riesce a dirlo ed anzi di molto importante, che va al di là della reazione di “forza” che con il profluvio di aggettivi e sostantivi il legislatore ha forse voluto manifestare nell’intento di riportare al rigore probatorio l’azione amministrativa. Le cose principali che dice sono queste. La prima è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova: i fatti costitutivi del diritto di credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione [3]. L’altra attiene al grado di robustezza che l’apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima. Infine, la nuova norma introduce il divieto di utilizzare prove incoerenti con il diritto sostanziale, ovvero prove che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o alla stregua di condizioni oggettive di imponibilità.
Ancor prima di queste pur fondamentali indicazioni, sulle quali tornerò nei prossimi paragrafi, la norma, se letta unitariamente, pare volerne dare una di portata generale. È possibile che in essa si annidi l’intento di piantare nel sistema un seme o forse è più corretto dire di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà o correttezza del contribuente accertato. Un seme, come cercherò di dimostrare in positivo, che io considero già presente in Costituzione ma che finora, per la sua immanenza, è rimasto sepolto. Il comma 5 bis contribuisce, forse, a dissotterrarlo. Ponendosi attentamente all’ascolto della norma è possibile percepire in essa un’eco proveniente dalla tradizione garantista d’origine penale formatasi intorno alla presunzione di non colpevolezza dell’imputato [4]. Il risuono è quello dell'art. 27, comma 2, della Costituzione, interpretato alla luce dell’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 6, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che parlano di “innocenza” dell’imputato “fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”. Non si tratta, dev’esser chiaro, di invocare in ambito fiscale l’applicazione delle previsioni penalistiche. Non solo sarebbe sbagliato, ma neppure è necessario, come verificheremo nelle prossime pagine. Quella eco garantista, tuttavia, è ugualmente fondamentale perché può farsi viatico per verificare se l’ipotizzata presunzione di onestà o di correttezza possa trarre anch’essa forza dalla trama costituzionale. Solo così, infatti, potrebbe essere elevata a principio e qualificata alla stregua di “parametro su cui modellare le regole probatorie e di giudizio”, proprio com’è pacificamente qualificata, per una delle sue funzioni, la norma dell’art. 27 Cost. [5]. Epperò, se il terreno non è quello penalistico, in quale altro la nostra presunzione potrebbe affondare la sua radice? È mia convinzione che esso coincida con il principio personalistico, principio che informa tutta la Carta e “sovrasta assiologicamente tutti gli altri” [6]. Per dirsi costituzionalmente conforme, infatti, [continua ..]
Per non esporre il discorso alla critica dell’incompletezza, mi soffermo ulteriormente sulla relazione fra stato costituzionale, principio personalistico e presunzione di onestà. In questa relazione, infatti, sta il bandolo della matassa per giungere a qualificare la presunzione stessa alla stregua di principio, seppure immanente, di fonte costituzionale. Non si scopre una nuova America affermando che è la persona il centro dell’ordine assiologico disegnato dalla Costituzione. Non è la legge ad assegnarle il palco d’onore, piuttosto è la legge a derivare e dipendere dalle libertà e dai diritti di quella [8]. Questo discorso si può ripetere, nella sostanza, anche per i poteri dello stato e in particolare per quelli da ultimo richiamati, ossia esecutivo d’accertamento e coercitivo. Il principio personalistico, nella sua essenza più profonda, ha il contenuto appena indicato. Ed è per questo, come ho ricordato, che possiede un’eccedenza assiologia su tutti gli altri [9]. A scomparire dal tavolo d’analisi, intendiamoci, non è il potere e neppure è la legge, ma per un verso è la loro supremazia sulla persona e sui suoi diritti e, per un altro, sono la “volontà generale”, la “ragion fiscale”, l’“interesse fiscale” e tutte le ulteriori escrescenze del potere stesso. Escrescenze e supremazia collocate, in ragione della storia, sui gradini superiori di un’illusoria scala alla cui base stavano – e forse tuttora si prova ingannevolmente a collocare – gli scalpiccii dei consociati con i loro diritti. In forza del principio personalistico tutto questo non ha più spazio: la scala si è capovolta e i diritti della persona, ora, ne costituiscono l’apice [10]. I poteri dello stato, compreso quelli esecutivo d’accertamento e coercitivo, non sono scomparsi, ma traggono legittimazione soltanto dal loro essere portatori di forze orientate a dare sbocco alla dimensione politica dei diritti appartenenti ab origine ai loro titolari [11]. In questo consiste lo stato costituzionale e la “sovranità della Costituzione”: essere al tempo stesso tavole assiologiche, deontologiche e normative al cui interno il potere si pone al servizio dei diritti e, direttamente o per il tramite di questi, al servizio della persona [12]. Certo, sarebbe [continua ..]
Le osservazioni finora svolte, pur scheletriche e come tali senz’altro incomplete, facilitano l’analisi delle tre indicazioni illustrate all’inizio provenienti espressamente dal comma 5 bis. La prima attiene alla ripartizione dell’onere della prova: l’amministrazione è onerata di provare le violazioni contestate, ossia, più esattamente, i fatti sui quali pretende di radicare il credito o il maggior credito accertato [16]. La regola è pacifica da molto tempo, sostenuta dai fautori vuoi della teoria costitutiva dell’obbligazione d’imposta, vuoi della teoria dichiarativa [17]. Il comma 5 bis si limita a confermarla [18]. La regola di ripartizione, per come appena tratteggiata, riprende nella sostanza quella stabilita dall’art. 2697 c.c., per il quale chi vanta un diritto deve provare i fatti che lo costituiscono, mentre chi eccepisce la loro inefficacia, oppure che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda. Di qui un dubbio, che introduco con questa domanda: la regola della “vicinanza” alla prova, quando determina l’addossamento del relativo onere sul contribuente [19], deve essere d’ora in poi espunta dalla ripartizione soggettiva dell’onere stesso [20]? Non sarebbe corretto, io credo, rispondere affermativamente. La nuova disposizione reagisce sulla regola della “vicinanza” bensì limitandone l’ampia – e spesso improvvida – applicazione compiuta dalla giurisprudenza più recente [21], ma non ne legittima l’espunzione. Conformemente alla sua ratio, ossia quella di salvaguardare il diritto sostanziale della parte processuale che non è oggettivamente in grado di raggiungere la pienezza dimostrativa dei fatti, potrà continuare ad essere utilizzata. Ma potrà nei limiti in cui le fonti di prova non siano producibili perché non apprendibili dalla stessa amministrazione nella fase dell’istruttoria primaria [22]. È la non apprendibilità della prova intesa come fonte a dover essere dimostrata in giudizio perché in questo modo il fatto sul quale l’attore sostanziale pretende di radicare il diritto entra nel processo pur sempre in maniera “puntuale e circostanziata”, come richiede, proprio, il comma 5 bis [23], e vi entra anche rispettando in qualche [continua ..]
L’altra indicazione del comma 5 bis si riferisce al livello minimo di robustezza che la prova deve raggiungere per essere considerata decisiva – vien da dire, se non si cadesse in un gioco di parole, per essere considerata “probante” – e quindi idonea a consentire al giudice di adottare una sentenza d’accertamento sulla fondatezza del diritto di credito [24]. Questo, infatti, deve essere accertato e dichiarato come esistente se le prove su cui lo stesso si radica sono in grado di dimostrarne la fondatezza in modo “circostanziato e puntuale”. Queste parole, se non si vogliono considerare come scritte sull’acqua o ridurle ad un esangue esercizio di retorica legislativa, possono assumere un solo significato: quello di legittimare sentenze d’accertamento positive quando il corredo degli elementi di prova consente al giudice di formarsi il convincimento della fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Sicché il giudice dovrà dichiararne l’infondatezza quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto costitutivo sussiste. Non si tratta qui di riprendere l’art. 533, comma 1, e l’art. 530, comma 2, c.p.p., per calarli di peso nel processo tributario, se non per mutuarne l’espressione del “ragionevole dubbio” per la sua efficacia evocativa. E non si tratta neppure di ridurre o mettere in discussione il principio del libero convincimento del giudice [25]. Si tratta, invece, di valorizzare adeguatamente il significato delle espressioni accolte nella nuova disposizione in coerenza con l’intero ordito nel quale è calata. Ed è per questo che a me sembra ragionevole sostenere che la prova del fatto posto a fondamento del diritto si può considerare decisiva solo se supera una soglia molto alta di attendibilità ricostruttiva, che non deve lasciare margini apprezzabili di dubbio: la prova deve essere “circostanziata” e quindi riferibile, soggettivamente, al contribuente accertato e, oggettivamente, corredata di tutti i particolari necessari per determinare la fattispecie alla quale la stessa prova si riferisce. E deve essere “puntuale”, ossia esatta, precisa, univoca, in modo da fugare ogni significativa incertezza sull’esistenza del fatto.
Che dire, allora, della presunzione semplice? La nuova norma quali conseguenze produce su questo tipo di prova [26]? Per andare dritti al nocciolo delle questioni, credo che la dimostrazione “circostanziata e puntuale” esiga che il fatto ignorato sia ricostruito alla stregua di conseguenza univoca del fatto noto; che il fatto noto sia certo, reale, specifico, determinato oggettivamente e soggettivamente, e adeguato a sorreggere l’inferenza; che gli elementi indiziari non si contraddicano o si elidano vicendevolmente, dovendo tutti concorrere a favore di una sola ricostruzione possibile; che la presunzione di “secondo grado”, ove utilizzata, muova da un fatto noto connotato da certezza, ovvero da univocità del nesso causale tra i fatti noto e ignoto costitutivi dell’inferenza di “primo grado”. Non è in dubbio che la presunzione semplice possa continuare a fondare la verità giuridica del processo anche alla luce della nuova disciplina, ma affinché ciò accada è necessario che possieda in sé il tratto della più alta approssimazione possibile del fatto ricostruito alla storicità degli accadimenti. Una così elevata approssimazione o un così elevato avvicinamento del fatto ignorato alla realtà si ha solo se tra questo e il fatto noto corre una relazione di necessità. E ciò non si potrebbe predicare se s’intendesse continuare a digradare il livello di verosimiglianza dell’ignoto alla molteplicità dei probabili o addirittura dei possibili [27]. La verosimiglianza massima del ricostruito alla realtà storica dell’accaduto, come scriveva Virgilio Andrioli oltre cinquant’anni fa [28], è così tendenzialmente assicurata per volere della legge. S’impone perciò che il corredo probatorio indicato nell’avviso d’accertamento e comunque portato in giudizio dalla parte pubblica [29], non lasci margini significativi di dubbio, che non siano quelli “naturali” di tutte le prove indirette ad apprezzamento critico. Ragionando in questo modo, l’interpretazione della nuova normazione si avvicina a quella corrente dell’art. 192, comma 2, del codice di procedura penale dedicato alle presunzioni. In entrambe, infatti, l’accento cade sulla necessità che gli elementi indiziari determinino nel giudice [continua ..]
È mia convinzione che nella nostra materia a questo risultato si dovesse giungere anche senza attendere la recente normazione sol che fosse stata adottata un’interpretazione rigorosa della disciplina dell’accertamento analitico-presuntivo per come dettata dalle leggi sull’accertamento delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto. In altra occasione [31] avevo cercato di dimostrare come il fatto noto non potesse consistere in mere asserzioni, in parametri quantitativi riferibili ad una generalità di soggetti e dunque privi di riscontri soggettivi, in congetture sguarnite di fattualità o basate su osservazioni non riscontrabili oggettivamente, in sospetti o mere probabilità di esistenza del fatto stesso. E men che meno il fatto noto poteva essere rivestito con gli abiti della certezza per rispondere a spinte moraleggianti o per dare corpo al supposto ma inesistente “interesse fiscale” [32]. Discorso simile, poi, si sarebbe dovuto fare per l’esito dell’inferenza [33]. La ricostruzione del fatto ignoto doveva mostrarsi come la necessaria conseguenza del fatto noto, sicché a petto di un ventaglio di ricostruzioni tutte probabili e tutte legittimate dal medesimo fatto iniziale, quello finale si doveva considerare sguarnito di prova [34]. Amministrazione e giurisprudenza, sostenuti da una parte della dottrina [35], hanno invece preferito adottare interpretazioni lasche a scapito della giustizia del processo e della giustezza della decisione, ma anche a scapito della certezza del diritto e dei rapporti giuridici. Ricorrendo ad una concezione gradualistica delle risultanze probatorie, dove si passa, senza soluzione di continuità, da ricostruzioni del tutto rigorose a ricostruzioni poco attendibili, solo probabili o perfino solo possibili, si è finito per cacciare il discorso sulle prove indirette in un cul-de-sac contrassegnato dalla sfuggevolezza, dall’impalpabilità del risultato inferenziale, come l’ha definito Cesare Glendi [36], incontrollabile dall’esterno con parametri oggettivi. Si è creato, per dirla in maniera molto semplice, una Babele delle lingue, contraddicendo così le connotazioni pubblicistiche di tutti i processi degli stati costituzionali. Di qui, come già sottolineato, la reazione “muscolare” del Parlamento, che si è tradotta, [continua ..]
La presunzione “semplicissima”, è perfino banale ricordarlo, è una fonte dimostrativa anomala, che si caratterizza per essere priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza [37]. È una semi-prova, piuttosto che una prova piena, come invece è la presunzione semplice. In prima battuta la sua compatibilità con il comma 5 bis appare dubbia ed ancor di più lo sembra se la si pone in relazione con la presunzione di onestà della persona accertata per come qui ipotizzata. Ragionando concretamente, tuttavia, non sembra immaginabile un abbandono o una declaratoria di illegittimità della sua disciplina, tanto è diffuso l’uso che ne è fatto dall’amministrazione e tanto è importante il vantaggio istruttorio che alla fine la macchina statale ne ritrae. La strada è così quella di verificare la possibilità di contemperare le diverse pulsioni del sistema e per questa via provare ad adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme. Un tentativo in questa direzione può essere quello di recuperare, da un lato, la ratio originaria di questa forma di presunzione e, da un altro, la struttura del sistema normativo nella quale essa si cala [38]. Per fare questo è necessario innanzitutto tornare a distinguere la prova in senso proprio dei fatti rappresentanti il presupposto dell’accertamento dalla (semi) prova del quantum dell’imponibile rettificato o accertato. La presunzione “semplicissima”, per come disciplinata dalle disposizioni sull’accertamento e dando a queste un’interpretazione corrispondente alla loro ratio storica, può intervenire soltanto come ausilio nel procedimento di quantificazione dell’imponibile. In secondo luogo occorre tornare a considerare la presunzione “semplicissima” come fonte indiziaria d’eccezione o straordinaria, traente giustificazione dalla speciale gravità delle violazioni riscontrate nella fase istruttoria. Il sistema, infatti, tollera sì che a petto di violazioni particolarmente gravi la quantificazione del maggiore imponibile si fondi su semi-prove, ma lo consente perché la gravità delle stesse è in sé indice dell’alta probabilità di evasione e perché non è dato conoscere strumenti storicamente più accreditati per [continua ..]
Rimane da indagare il requisito della “coerenza” della prova, qui da intendere come risultato del procedimento probatorio, con la “normativa tributaria sostanziale. È un requisito esterno alla prova ma che su questa reagisce rendendola inutilizzabile. Sfrondando il ragionamento, ciò significa che il giudice – e prima l’amministrazione – non può radicare la decisione su prove che finiscono per modificare oppure ampliare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni di imponibilità per come diversamente determinate dal diritto positivo sostanziale. Se il risultato al quale l’amministrazione perviene con l’uso, ad esempio, della presunzione semplice non si conforma ed anzi contrasta con le disposizioni del testo unico delle imposte sui redditi relative ai ricavi (art. 85) o alla percezione dei compensi (art. 54) e forse anche a quelle sulla percezione degli utili nelle società a ristretta base sociale (art. 45), la presunzione non può legittimare la pretesa creditoria. E non la può legittimare non già perché viziata in sé, ovvero costruita malamente nell’individuazione del fatto noto, nell’uso del ragionamento deduttivo o nell’esito ricostruttivo di quello ignoto, ma perché contrastante con il diritto sostanziale, modificabile o integrabile solo dal legislatore. In altri termini, fintanto che questi non interviene, magari introducendo specifiche presunzioni legali, la pretesa creditoria non si può fondare su una prova preordinata, negli effetti concreti, ad allargare o modificare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni oggettive di imponibilità [39].
Riprendo, per concludere, una riflessione contenuta in un recente libro di Raffaello Lupi [40]. L’autore mette acutamente in risalto il disagio del giudice, specie quello chiamato a trattare questioni amministrative, quando deve esaminare e comprendere le dinamiche dell’attività istruttoria che precede il suo intervento. E parallelamente mette in evidenza le difficoltà d’orientamento ed anche di ponderazione che inevitabilmente, al di là del formalismo leguleio, l’amministrazione si trova a dover compiere, specialmente in un sistema di “fiscalità di massa”. Non v’è dubbio che le cose stiano in questo modo. Non v’è nemmeno dubbio, però, che anche per questi motivi il sistema di somministrazione della giustizia abbia talvolta perso di vista l’essenzialità del suo ruolo, ossia quello di garantire protezione ai beni della vita, privati o pubblici che siano, nel rigore della dialettica probatoria, paritaria ed effettiva, delle parti. La riforma tenta di limitare i margini, per così dire, dinamici degli attori di questo complesso procedimento. E però lo fa – io credo – non tanto per riaffermare una primazia del legislatore sugli altri poteri, compreso quello giudiziario, o per impedire la libera formazione del convincimento del giudice, ma per riportare al centro del palcoscenico i diritti della persona accertata. Un tentativo, insomma, per dare gambe ad un principio basilare dello stato costituzionale: la “giustizia nell’imposizione”. Principio che corre a braccetto con quello, anch’esso fondamentale, della presunzione d’onestà o correttezza della persona accertata. Come tutti gli idoli, anche quello della giustizia va trattato con cura, per non correre il rischio, come ammonisce Gustave Flaubert in Madame Bovary, che un po’ di oro rimanga sulle dita e alla fine, paradossalmente, l’idolo stesso si rivolti contro chi ha provato a toccarlo. L’auspicio è che questo non accada e che, anzi, la “scossa” del legislatore determini una riflessione a tutto campo, come sottolinea Lupi, sulla socialità del diritto e, aggiungo io, sui princìpi dello stato costituzionale letti alla luce del principio di realtà del diritto stesso.