Il sistema istituzionale dei rapporti Stato-regioni si caratterizza per la mancata realizzazione di compiute forme di federalismo fiscale: le cause vanno ravvisate nel prudentissimo atteggiamento della Corte costituzionale (sia sul versante del riconoscimento dei poteri tributari alle autonomie che su quello del coordinamento della spesa, pervasivamente applicato in ragione della sopravvalutazione del principio di unitarietà della finanza pubblica) e nella conseguente timidezza della legge delega n. 42/2009, la quale, per quel che riguarda i profili dell’autonomia tributaria, si impernia sulla c.d. riserva di presupposto e quindi, data l’impossibilità da parte delle regioni di sovrapporsi ai tributi statali, sulla necessità di “accontentarsi” di tributi di matrice corrispettiva che non sono senz’altro in grado di garantire significativi gettiti alle autonomie. In questo contesto non può stupire che le regioni più dinamiche e produttive del Paese abbiano cercato di sfruttare la clausola di asimmetria che la Carta mette loro a disposizione, quell’art. 116, comma 3, Cost., il quale prevede il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni che giungano a un’intesa che sia in grado di passare il vaglio parlamentare. L’autonomia differenziata delle regioni può costituire in questa prospettiva quel fattore dinamico che consenta di superare l’attuale perniciosa situazione di stallo, quella situazione per cui le regioni del nord non crescono anche in ragione della stretta fiscale a cui sono sottoposte e le regioni del sud crescono ancor meno non essendo oltretutto in grado di fornire servizi e prestazioni di qualità paragonabile a quella ottenibile in altri territori. Decisivo quindi interrogarsi sui profili finanziari dell’autonomia differenziata regionale e, quindi, in definitiva, sui meccanismi di funzionamento delle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio. Queste ultime: i) possono permettere alle regioni del nord, che siano in grado, anche in ragione del riconoscimento di maggiori funzioni e competenze, di innescare virtuosi percorsi di crescita, di trattenere maggiori risorse sul territorio senza che questo vada a scapito delle regioni meno ricche; ii) possono influire positivamente, se declinate come riserva di aliquota, sugli esigui margini di autonomia tributaria che l’attuale assetto istituzionale riconosce loro.
The institutional system of State-regions relations is characterised by the failure to implement complete forms of fiscal federalism: the causes are to be found in the very prudent attitude of the Constitutional Court (both in terms of the recognition of fiscal powers to the autonomies and on that of the coordination of expenditure, pervasively applied due to the overestimation of the principle of unity of public finance) and the consequent shyness of Delegated Law no. 42/2009, which, as regards the profiles of tax autonomy, hinges on the so-called reserve of assumption and, therefore, given the impossibility of the Regions to overlap central State taxes, on the need to “settle” for corresponding taxes that are certainly not able to guarantee significant revenues to the autonomies. In this context, it is not surprising that the most dynamic and productive Regions of the country have tried to exploit the asymmetry clause provided by the Constitution: i.e. Art. 116, paragraph 3, which recognises further forms and special conditions of autonomy for Regions that come to an agreement that is able to pass parliamentary scrutiny. In this perspective, the Regions’ differentiated autonomy may represent the dynamic factor that makes it possible to overcome the current pernicious stalemate, the situation in which northern Regions do not grow also due to the fiscal squeeze to which they are subjected, and southern Regions grow even less as they are not able to provide services and performances of a quality comparable to that obtainable in other territories. It is, therefore, decisive to check the financial profiles of the differentiated regional autonomy and, ultimately, analyse the operating mechanisms of the Center-peripheries transfers of revenue referable to the territory. The latter: i) may allow northern Regions, which are able, also by reason of the recognition of greater functions and skills, to trigger virtuous growth paths and retain more resources in the territory without this being to detriment of the less rich; ii) may have a positive effect, if declined as a rate reserve, on the small margins of fiscal autonomy that the current institutional structure recognises them.
Keywords: fiscal federalism, differentiated autonomy, tax autonomy, participating to the revenue generated by central State taxes, coordination of public finance.
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1. Il punto di partenza: la mancata realizzazione di compiute forme di federalismo fiscale e il nulla di fatto nelle trattative Stato-regioni sull’autonomia differenziata. Una situazione bloccata? - 2. Una necessaria premessa: le soluzioni federalistiche tra autonomia e solidarietà, tributi propri e perequazione - 3. Un federalismo fiscale di facciata, non di sostanza: gli esigui spazi riconosciuti all’autonomia tributaria regionale, la limitazione delle singole spese quale effetto del legittimo esercizio della funzione statale di coordinamento, la determinazione dei LEP come strumento per garantire, attraverso il miglior funzionamento degli strumenti perequativi, il controllo dal centro - 4. Alla ricerca dell’autonomia differenziata: in un contesto di non crescita economica e di sempre più difficile sostenibilità degli assetti della ripartizione delle risorse può forse stupire che le regioni più dinamiche e produttive abbiano chiesto (e chiedano) di vedere applicata nei loro confronti la clausola di asimmetria di cui all’art. 116, comma 3, Cost.? - 5. Segue. Sui profili finanziari dell’autonomia differenziata e, in particolare, sul funzionamento dello strumento di finanziamento delle nuove competenze, le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio - 6. Considerazioni conclusive, in una prospettiva de iure condendo - NOTE
Il tormentato federalizing process italiano si caratterizza, a vent’anni dalla riscrittura del Titolo V della II parte della Costituzione ad opera della L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, per una doppia mancata realizzazione. La prima è quella attinente alla non riuscita implementazione di compiute forme di federalismo fiscale dovuta, da una parte, al prevalere, nella giurisprudenza della Corte, di un’esegesi del dato costituzionale tesa a valorizzare, a scapito dell’autonomia regionale, la funzione statale di coordinamento finanziario, dall’altra, alle conseguenti timidezze e cautele del legislatore dell’attuazione dell’art. 119 Cost., sia delegante (L. 5 maggio 2009, n. 42, «Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione») che delegato (D.Lgs. 6 maggio 2001, n. 68). La seconda concerne l’intesa non raggiunta in materia di autonomia differenziata ex art. 116, comma 3, Cost., «la parte più interessante della riforma del Titolo V» [1], tra il governo e le regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) che più hanno percorso la strada che avrebbe dovuto portare all’accordo da sottoporre successivamente all’approvazione, a maggioranza assoluta, delle camere. È da qui che occorre muovere, giacché si possono ipotizzare possibili soluzioni e si può formulare una qualche proposta su cui valga la pena di riflettere solo se, una volta preso atto del duplice danno provocato dagli odierni flussi di prelievo e spesa nei diversi territori (vd. infra, amplius), si tenti di capire: i) se le prudenti scelte del legislatore e il non ancora ultimato compimento del disegno riformatore abbiano trasformato il tentativo di ottenere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» (art. 116, comma 3, Cost.) nell’unico strumento messo a disposizione dall’ordinamento alle regioni che chiedono a gran voce il riconoscimento di maggiori funzioni e competenze, anche a seguito, per Lombardia e Veneto, dei risultati delle consultazioni referendarie del 22 ottobre 2017 [2]; ii) se il mancato raggiungimento delle intese trovi convincente giustificazione nell’assunto, da più parti sostenuto [3], secondo il quale non si potrebbe giungere ad un accordo prima della completa e definitiva attuazione della norma costituzionale. Se la risposta [continua ..]
Prima di affrontare le ricordate questioni è necessaria una premessa di carattere definitorio. È il caso di ricordare, infatti, che le trasformazioni in senso federale degli stati accentrati si fondano sulla progettazione e realizzazione di meccanismi istituzionali che consentano agli enti territoriali di essere, ciascuno in una data sfera, coordinati e indipendenti [5]. In un contesto federale, lo Stato non dovrebbe poter limitare discrezionalmente gli spazi di autonomia di cui le regioni (ma anche gli enti locali) godono in ragione della ripartizione delle competenze operata a livello ordinamentale [6]. Ad analoghi principi dovrebbe ispirarsi il modello della ripartizione delle risorse tra i diversi enti che costituiscono la Repubblica: non occorre forse nemmeno citare l’icastica (e, per questo, celeberrima) frase del Mortati sull’autonomia finanziaria quale pietra angolare del sistema delle autonomie [7] per prendere atto di un’ovvia circostanza, e cioè che «non può certo ipotizzarsi […] che il sistema sia, nello stesso tempo, federalista nella distribuzione delle competenze e accentrato nella determinazione dei meccanismi di provvista dei mezzi finanziari necessari all’espletamento delle funzioni attribuite» [8], giacché, se così fosse, «lo Stato (persona) potrebbe in ogni momento influire sul concreto esercizio di quelle facoltà, che pure il sistema devolve in via esclusiva agli enti territoriali» [9]. Approdo questo, è il caso di evidenziarlo, che, per caratterizzare di sé i rapporti interistituzionali, non può essere il frutto di una determinata contingenza storica particolarmente favorevole ai processi di federalizzazione: a un tale risultato si dovrebbe infatti giungere in forza di principi e regole delineati nella legge fondamentale che impediscano alla finanza derivata dal centro di riaffermarsi, mettendo in pericolo la certezza delle entrate e la loro congruità rispetto ai compiti e alle funzioni (id est, l’autonomia finanziaria) che gli enti subcentrali debbono svolgere per garantire al meglio il complessivo funzionamento delle istituzioni [10]. Si tratta di equilibrio non facile da raggiungere. Ed invero, l’obiettivo federalista, garantire la differenziazione delle politiche pubbliche in ragione delle diverse esigenze dei differenti territori, va evidentemente [continua ..]
Se le scelte del legislatore statale che debba individuare e disciplinare i principi fondamentali del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» (art. 117, comma 3, Cost.) debbono tener conto dell’anzidetto trade-off tra tributi propri e perequazione, non si può che prendere atto che nel nostro ordinamento non ci si è di certo lasciati suggestionare (anzi, vale l’opposto, come si vedrà) da tendenze e modelli spiccatamente autonomistici e, quindi, proprio per questo, scopertamente volti a mettere in competizione tra loro le diverse aree territoriali [12]. L’art. 2, comma 2, lett. o), della L. n. 42/2009, il quale rispecchia gli esiti interpretativi di una giurisprudenza costituzionale particolarmente cauta fin dalle prime sentenze del 2003 (nn. 296-297 e 311) e del 2004 (n. 37) [13], individuava, infatti, quale criterio direttivo cui il legislatore delegato doveva attenersi quello della «esclusione di ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto, salvo le addizionali previste dalla legge statale o regionale» [14]. Divieto di imposizione sullo stesso fatto generatore dell’obbligazione tributaria, quindi, e inevitabile «sdoganamento» dei tributi istituiti e disciplinati dalla legge dello Stato il cui gettito spetti alle regioni, i quali, in conseguenza della qualificazione operata dall’art. 7, comma 1, lett. a), della L. n. 42/2009, diventano a tutti gli effetti tributi propri (anche se derivati) e, quindi, fonte di finanziamento ammessa ai sensi dell’art. 119, comma 2, Cost. (cfr. art. 8 del D.Lgs. n. 68/2011). Si è lapidariamente rilevato, a fronte dell’anzidetta «trasformazione», che «gli attuali tributi assegnati sono di fatto tributi interamente erariali e limitatamente modificabili» [15]. A ciò si aggiunga che l’art. 11, comma 1, del D.Lgs. n. 68/2011 stabilisce che «gli interventi statali sulle basi imponibili e sulle aliquote dei tributi regionali di cui all’articolo 7, comma 1, lettera b), numeri 1) e 2), della citata legge n. 42/2009 sono possibili, a parità di funzioni amministrative conferite, solo se prevedono la contestuale adozione di misure per la completa compensazione tramite modifica di aliquota o attribuzione di altri tributi», così sancendo il principio secondo il quale lo Stato può modificare discrezionalmente [continua ..]
Come si è visto, alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione sia la Corte costituzionale che il legislatore dell’attuazione dell’art. 119 Cost. hanno risposto con eccessiva prudenza, privando le regioni a statuto ordinario degli attrezzi di cui esse dovrebbero disporre in un sistema federale, considerato che: i) gli strumenti tributari sono i tributi derivati e le addizionali (in cui tutto è deciso dallo Stato); ii) il coordinamento statale sulla spesa riguarda anche le singole voci d’uscita in conseguenza dell’eccessiva valorizzazione del principio di unitarietà della finanza pubblica; iii) la soppressione dei trasferimenti statali è di continuo rinviata (non se ne parla fino al 2023); iv) quel che non si è ancora messo in atto, la determinazione dei LEP che deve prioritariamente fondarsi sulla fissazione di costi e fabbisogni standard, è funzionale al controllo delle autonomie da parte dello Stato. È quindi la crisi del federalismo (sarebbe più corretto dire decentramento) solidaristico e cooperativo che ha convinto Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna a tentare il negoziato con il governo al fine di ottenere le già ricordate «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia»? Non è facile rispondere a una domanda del genere, anche perché: – non si può non tener conto del fatto che le decisioni dei vertici regionali, quanto meno per le prime due regioni, hanno trovato importante sostegno (decisivo, per il Veneto, in ragione della previsione del quorum costitutivo del 50 per cento più uno) nella volontà popolare così chiaramente espressa nei referendum consultivi; – non si può certo pensare che a indurre oltre 5 milioni di persone (il 10 per cento circa dell’elettorato nazionale, il 58 per cento circa degli aventi diritto al voto in Veneto) ad andare a votare in massa per l’autonomia rafforzata in una piovosa domenica di fine ottobre siano state astruse questioni di ordine tecnico, quali l’insufficiente valorizzazione dell’autonomia tributaria regionale, la possibilità dello Stato di porre dei limiti alle singole voci di spesa delle regioni o la mancata fiscalizzazione dei trasferimenti, la non ancora riuscita attuazione di criteri di quantificazione della spesa che consentano di superare l’iniquo criterio della spesa [continua ..]
La crisi del modello di federalismo (rectius, decentramento) cooperativo che si è adottato in sede di attuazione dell’art. 119 Cost., il persistente deficit di crescita, i precari equilibri della finanza pubblica italiana e la sinteticamente descritta situazione dei rapporti finanziari tra le diverse aree del Paese rendono particolarmente delicato ogni tentativo di modifica dell’esistente. Dato atto di ciò, non mi sembra semplice sostenere che la determinazione dei LEP da effettuarsi secondo le procedure e i tempi individuati da un’apposita legge quadro, che non ha ad oggi ancora visto la luce [38], sia precondizione necessaria di qualsivoglia intesa Stato-regione ex art. 116, comma 3, Cost. E ciò, a prescindere da qualsivoglia dubbio di costituzionalità di una legge siffatta, che pur si è posto in dottrina [39], per quanto meno quattro ragioni. La prima. Si tratta di tesi che finisce per giustificare, senza che nulla del genere sia previsto nella Carta fondamentale (anzi, prevedendo l’art. 116, comma 3, un’unica forma di attuazione, la legge dello Stato che deve essere approvata a maggioranza assoluta da parte di entrambe le camere), il rinvio sine die dell’applicazione di una norma costituzionale: basterebbe per lo Stato rimanere inerte per bloccare sul nascere qualsivoglia richiesta di differenziazione. Si può quindi perfino dire che è il principio di leale collaborazione, che di certo non può obliterare il diritto delle regioni a intavolare un negoziato con qualche speranza di successo allo scopo di arrivare alla differenziazione, a smentire l’assunto secondo il quale una legge quadro sarebbe necessaria per fare da cornice alle intese. La seconda. Se le regole finanziarie previste nelle bozze di intesa sono ispirate, in linea con quanto previsto nell’art. 14 della L. n. 42/2009, il quale prevede che la legge che attribuisce forme e condizioni particolari di autonomia debba anche provvedere all’assegnazione delle risorse necessarie, al principio di invarianza o neutralità finanziaria tra il prima e il dopo l’accordo, non si capisce per quale motivo si dovrebbe attendere il varo di una legge statale volta a regolare ulteriormente il processo di determinazione dei fabbisogni standard. La terza. Se lo Stato non è riuscito a determinare i LEP in dieci anni, perché mai si dovrebbe ritenere che le cose [continua ..]
Se c’è un fatto su cui tutti gli interpreti sono d’accordo è che non si sia assistito nel nostro Paese al varo di compiute forme di federalismo fiscale, e ciò malgrado le inequivoche indicazioni contenute nel testo del Titolo V della Parte II della Costituzione come riscritto dalla l. cost. n. 3 del 2001: i tributi su cui si impernia la fiscalità regionale sono istituiti e disciplinati dallo Stato, il quale determina gli spazi entro i quali le regioni possono muoversi; la riserva di presupposto ha relegato i tributi propri in senso stretto a fattispecie del tutto marginali, che di certo non consentono alle autonomie di calibrare le politiche fiscali sui territori dando così piena attuazione al principio di responsabilità; il coordinamento statale sulla spesa ha avuto ad oggetto anche singole voci d’uscita in conseguenza dell’eccessiva valorizzazione del principio di unitarietà della finanza pubblica; a tutt’oggi, non sono stati ancora definitivamente soppressi i trasferimenti statali, che pur non hanno diritto di cittadinanza nel «nuovo» art. 119 Cost. Si può quindi convenire, tutto ciò considerato, con chi, dopo aver preso atto che «la finanza territoriale continua a essere in larghissima parte derivata o limitatamente compartecipata», ha perentoriamente affermato che «il modello costituzionale di autonomia finanziaria nei suoi elementi prescrittivi non è stato compiutamente rispettato» [56]. Ad aggravare la situazione sta la sempre più precaria situazione della finanza pubblica italiana (tanto più dopo la pandemia) e l’assetto dei rapporti interterritoriali, caratterizzato dall’ingente drenaggio di risorse che penalizza il nord, che arranca, senza avvantaggiare il Mezzogiorno, che non cresce. Di qui reciproci rivendicazionismi, rampogne e accuse, per il vero temporaneamente sopiti grazie al già ricordato PNRR, che non tengono in minima considerazione che il problema è nazionale perché attiene alla sostenibilità e alla compatibilità con la crescita dell’attuale centralizzato assetto della ripartizione delle risorse tra i diversi territori. In questa difficilissima situazione, l’autonomia differenziata è, tanto più in un contesto in cui si può contare su risorse che arrivano dall’Unione europea e che comunque [continua ..]