La Suprema Corte ha ritenuto che siano da ricondurre nel perimetro applicativo dello stralcio automatico dei carichi affidati agli agenti di riscossione – di cui all’art. 1, commi 527, 528 e 529, della L. n. 228/2012 (c.d. Legge di stabilità 2013) – anche i contributi previdenziali dovuti alla Cassa forense, in virtù di un principio di economicità di gestione di tali enti e di una esigenza di razionalizzazione. La posizione della giurisprudenza, tuttavia, si pone in contrasto, sia con taluni fondamentali principi costituzionali (artt. 38, 42, 81 e 97 Cost.), sia con l’ampio grado di autonomia regolamentare riconosciuto dalla stessa giurisprudenza alle Casse. Lo Stato, infatti, non può disporre con una propria legge di “risorse altrui” (e, in particolare, di entrate di enti privati che esercitano funzioni pubbliche) senza che sia prevista alcuna forma di indennizzo. Si sarebbe, dunque, resa necessaria una interpretazione adeguatrice, conforme a Costituzione.
The Italian Supreme Court held that the discipline on automatic removal of tax claims entrusted to tax collection agents – Art. 1, paragraphs 527, 528 and 529, Law no. 228/2012 (so-called Stability Law 2013) – shall also include social security contributions due to the Lawyers’ Pension Fund, by virtue of a principle of cost-effectiveness of management of these bodies and a need for rationalisation. The position of the case law, however, appears in contrast, both with certain fundamental constitutional principles (Arts. 38, 42, 81 and 97 of the Constitution), and with the large degree of regulatory autonomy recognised by the same case law to Pension Funds. The State, in fact, cannot dispose of “other’s resources” (and, in particular, income of private entities that exercise public functions) without any form of compensation being envisaged. Therefore, an adaptive interpretation would have been necessary, in accordance with the Constitution.
Keywords: Lawyers’ Social Security Fund, security contributions, tax amnesties, tax collection rolls, constitutional principles
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1. Introduzione - 2. Il caso all’esame della Suprema Corte - 3. La (ir)rilevanza della natura privatistica delle Casse di previdenza - 4. I vincoli derivanti dagli artt. 81 e 97 Cost. ed i limiti alla lesione dell’autonomia finanziaria e regolamentare delle Casse di previdenza - 5. La necessità di un’interpretazione adeguatrice “forte” - 6. Conclusioni - NOTE
La sentenza in commento si inserisce in un “filone interpretativo” che si sta, via via, consolidando [1], avente ad oggetto varie ed articolate questioni giuridiche che meriterebbero, singolarmente, un’autonoma trattazione. Giova, quindi, precisare che il presente lavoro si soffermerà, esclusivamente, su una specifica problematica affrontata dal Supremo Collegio, ovvero sulla possibilità di estendere le norme di condono (rectius, di “stralcio automatico” dei carichi affidati agli agenti di riscossione) relativi ai carichi previdenziali dovuti alle Casse di previdenza: nella fattispecie concreta alla Cassa Forense [2]. La pronuncia annotata, peraltro, pur riguardando la normativa introdotta con la Legge di stabilità del 2013 [3], non può che avere un evidente impatto anche sulla recente novella del 2018 [4] la quale, all’art. 4 – al pari della normativa del 2012 – ha introdotto una misura di stralcio “automatico” (cioè senza la necessità di alcuna istanza di parte), per i debiti pregressi fino a mille euro [5]. Il tema è scivoloso e delicato in quanto riguarda, in senso ampio, i limiti e la legittimazione di istituti condonistici connessi ad entrate diverse da quelle Statali (cioè dovute a soggetti “diversi” dall’ente che ha legittimato la sanatoria – lo Stato – e che traggono la propria sussistenza da dette entrate extra-tributarie). La questione è, dunque, quanto mai complessa e le maggiori criticità derivano, da un lato, da scelte legislative frettolose, dettate da esigenze estemporanee [6], e non di sistema, che mal si conciliano con l’attuale assetto costituzionale e, dall’altro, dalla continua ibridazione tra profili privatistici e pubblicistici che caratterizzano le casse di previdenza (così come molti altri enti riconducibili al cosiddetto settore pubblico allargato) le quali, pur esercitando funzioni di interesse pubblico, si finanziano esclusivamente con risorse proprie, godendo di totale autonomia (vd. infra § II) Anticipando sin d’ora le conclusioni, i principi enunciati dalla Suprema Corte – la quale, peraltro, rinvia, anche in punto di motivazione, a taluni propri precedenti del medesimo segno – non sono, in alcun modo, condivisibili: la Corte, infatti, adottando un approccio “iper statalista”, si [continua ..]
La vicenda – che vedeva come parte ricorrente, come detto, la Cassa forense contro l’Agenzia delle Entrate riscossione – verte sull’interpretazione della L. n. 228/2012 (Legge di stabilità 2013) e, segnatamente, dell’art. 1, commi 527, 528 e 529. Tali disposizioni, in particolare, dispongono, con una formulazione tranchant, che i crediti di importo fino a duemila euro, comprensivo di capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni, iscritti in ruoli resi esecutivi fino al 31 dicembre 1999, sono automaticamente annullati. Come appare evidente, le disposizioni in questione, sul piano letterale, non prestano il fianco ad alcun fraintendimento prevedendo, automaticamente, i seguenti effetti: annullamento dei ruoli senza alcuna istruttoria, estinzione del credito, cancellazione definitiva del medesimo. A ciò si aggiunga che la novella del 2012 opera su di un ulteriore piano, giacché ha introdotto una misura condonistica anche per l’Agenzia delle Entrate riscossione essendo stati, questi ultimi totalmente sollevati, ex lege, da qualunque “responsabilità” erariale [7]. In altri termini, a differenza delle più note e comuni forme di condono (ma anche di “rottamazione”) lo Stato rinuncia, de plano, con automatismi applicativi senza precedenti, ai crediti ancora insoluti, con una valutazione ex ante basata, esclusivamente, su un mero dato quantitativo. La novella del 2012, nonché quella più recente del 2018, non sono, infatti, riconducibili a nessuna delle diverse categorie di condono non avendo gli istituti in esse disciplinati, né natura premiale (volta a “rimodulare” la pretesa tributaria pro contribuente), né clemenziale [8] (cioè incidente sul quantum delle sanzioni amministrative irrogabili) [9]. Tanto premesso, la Cassa Forense – in estrema sintesi e secondo una linea difensiva ormai consolidata – sosteneva che le disposizioni in questione avrebbero determinato un esproprio del credito senza indennizzo, con conseguente depauperamento dell’attivo patrimoniale, integrando, quindi un provvedimento ablatorio nei confronti dell’ente previdenziale (al quale lo Stato non contribuisce neppure in via indiretta). Secondo parte ricorrente, infatti, fermo restando la incostituzionalità della normativa in questione, essa non potrebbe, comunque, trovare [continua ..]
La prima questione posta all’attenzione dei Giudici di Legittimità riguardava gli effetti della mutata qualifica soggettiva delle Casse di previdenza (da ente pubblico a soggetto di diritto privato). Giova premettere che la risposta della giurisprudenza, da qualunque prospettiva la si analizzi, è assolutamente insoddisfacente in quanto essa si limita ad osservazioni scontate, ma devianti rispetto al tema centrale e risolutivo. Un punto che non pare essere posto in discussione (peraltro neppure, in sostanza, nella motivazione della sentenza in commento) è che la Cassa forense sia riconducibile al cosiddetto “settore pubblico allargato” [14], con tutto ciò che, ovviamente, ne consegue dal punto di vista dell’applicazione dei principi che devono caratterizzare l’agere della pubblica amministrazione. D’altro canto, seppur con riferimento alla Cassa di previdenza e assistenza dei dottori Commercialisti, i Giudici delle Leggi hanno avuto modo di stabilire, a chiare lettere, che “la trasformazione della Cassa … pur avendo inciso sulla forma giuridica dell’ente e sulle modalità organizzative delle sue funzioni, non ha modificato il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di previdenza ed assistenza, che mantiene non solo una funzione strettamente correlata all’interesse pubblico di assicurare dette prestazioni sociali a particolari categorie di lavoratori, ma acquisisce un ruolo rilevante in ambito europeo attraverso l’inclusione delle risultanze del relativo bilancio nel calcolo del prodotto nazionale lordo ai prezzi di mercato (PNLpm), mediante le uniformi regole di contabilizzazione del sistema europeo dei conti economici integrati” [15]. Il concetto di “settore pubblico” è, oggi, notoriamente ampio e, sostanzialmente, privo di confini soggettivi. A titolo meramente esemplificativo, basti pensare che l’art. 7 del D.Lgs. n. 104/2010 (in tema di giurisdizione amministrativa) dispone che “per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo”. È ancora più “onnicomprensiva” la definizione contenuta nell’art. 22, L. n. 241/1990, a mente del quale per “pubblica amministrazione” si intende l’insieme di [continua ..]
La risposta alla domanda che precede (vd. retro § 2) impone di analizzare taluni “vincoli” costituzionale che si sono, via via, resi più incisivi nel corso degli anni e che riguardano qualunque soggetto che eserciti funzioni pubbliche, a prescindere dallo status soggettivo. Il punto centrale della questione è rappresentato dal fatto che, una volta riconosciuta alle Casse di previdenza la natura “funzionale” di soggetti pubblici, occorre domandarsi se sia ragionevole una normativa statale che sottragga loro, automaticamente, le risorse per autofinanziarsi in ragione di una asserita “economicità”. In altri termini – e cercando di sintetizzare l’attuale orientamento giurisprudenziale – la novella del 2013 sarebbe giustificata da mere esigenze di razionalizzazione della riscossione, nonché dalla necessità di eliminare (automaticamente) poste che andrebbero a minare la “credibilità” dei bilanci della Cassa. In buona sostanza, a giudizio della Suprema Corte, le suddette finalità, in una logica di ponderazione di valori, dovrebbero prevalere sulla esigenza della Cassa di reperire le risorse necessarie per la propria gestione venendosi a creare, di fatto un evidente squilibrio finanziario in capo all’ente, impossibilitato ad autofinanziarsi e a fornire le proprie prestazioni. Il punto è che un tale approccio non pare, in alcun modo, coerente con i principi della finanza pubblica, scolpiti a chiare lettere nella Costituzione negli art. 81 e, soprattutto, 97. Il legislatore, infatti, sulla scia dei provvedimenti europei denominati comunemente “Fiscal compact” [21], ha optato per una duplice (e assai significativa) modifica agli artt. 81 e 97 Cost. [22]. Entrambe le novellate disposizioni fanno parte di un disegno unitario ma, mentre il primo, in attuazione di una ormai consolidata giurisprudenza costituzionale [23], dispone che “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”, l’art. 97 è molto più rivoluzionario, “concreto” sul piano degli effetti e riferibile a qualunque soggetto che eserciti funzioni pubbliche. Tale norma, infatti, a fianco dei classici canoni di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, introduce [continua ..]
Per le ragioni che precedono (vd. retro) la sentenza in commento è fortemente criticabile in quanto mal si comprende le ragioni per cui i giudici di Legittimità non abbiano tentato un’interpretazione conforme a Costituzione del dato normativo [51]. È vero che le disposizioni in esame non sembrano prestare il fianco, sul piano letterale, a spazi interpretativi particolarmente ampi, ma è altrettanto vero che i Giudici di Legittimità fanno ampio uso di metodi interpretativi ben più incisivi di quelli tradizionali arrogandosi, in molti casi in modo decisamente eccessivo, prerogative proprie del legislatore [52]. Al contrario, a fronte di evidenti frizioni tra la normativa ordinaria e l’assetto costituzionale, ed alla luce di orientamenti che enfatizzano il potere regolamentare delle Casse in deroga alla normativa statale (vd. retro § III), la Suprema Corte avrebbe potuto avvalersi di una interpretazione adeguatrice per superare le criticità specie, come detto, alla luce della rinnovata precettività dei principi costituzionali [53] e di una nuova sensibilità della dottrina verso un ruolo maggiormente attivo delle Corti (specialmente della Corte di Cassazione nell’esercizio della propria funzione nomofilattica) [54]. D’altro canto, il fulcro dell’interpretazione conforme a Costituzione è ben rappresentato dalle seguenti parole: “di fronte a più possibili interpretazioni, allorché su nessuna di esse si sia formato il diritto vivente, il giudice rimettente deve far uso dei propri poteri interpretativi allo scopo di valutare, preventivamente, se esiste la possibilità di superare i dubbi di costituzionalità attraverso un’interpretazione adeguatrice della disposizione denunciata, che la renda conforme ai principi costituzionali” [55]. I margini interpretativi, infatti, sono assolutamente ampi in quanto la novella del 2013 – al pari delle recenti disposizioni introdotte dal D.L. n. 119/2018 riguardante i debiti fino a 1.000 euro – non pone alcun preciso limite, sia dal punto di vista soggettivo, sia dal punto di vista del “tipo” di entrata condonabile. Anzi, al contrario, la Corte avrebbe dovuto porsi come “dubbio principale” se – nel totale silenzio della norma – la voluntas legis fosse quella di estendere la disciplina condonistica a entrate [continua ..]
Alla luce di quanto precede, non si può che auspicare un radicale reveirment della giurisprudenza della Suprema Corte in quanto, come anticipato, i principi enunciati nella sentenza in commento (ed in altre sentenze del medesimo tenore) possono avere gravi conseguenze sulle finanze della Cassa forense e, soprattutto, rappresentano un pericoloso precedente. I segnali, tuttavia, non lasciano ben sperare in quanto con riferimento alle misure di rottamazione dei ruoli del 2018 (citate in premessa e più volte menzionate), sono noti orientamenti perfettamente in linea con quelli della sentenza in commento [62]. Così, a titolo meramente esemplificativo, sono state ritenute “condonabili” le tasse automobilistiche dovute alle Regioni [63], nonché le entrate riscosse mediante ingiunzione fiscale (procedura tipicamente utilizzata da enti locali, nonché da enti pubblici appartenenti al settore pubblico allargato). Un fenomeno che colpisce, negativamente, è quello della giurisprudenza di legittimità “ad intermittenza”, a grave discapito del ruolo nomofilattico della Suprema Corte. Mentre, come detto, la sezione lavoro (vd. retro, § III), nonché la stessa Consulta valorizzano, fortemente l’autonomia finanziaria e regolamentare delle casse di previdenza, anche in applicazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione (scolpito nell’art. 97 Cost, oggi arricchito dalla esigenza dell’equilibrio finanziario), altre sezioni “sorvolano” sulla questione. È clamoroso, infatti, che la giurisprudenza, da un lato, consenta, di fatto, la disapplicazione della normativa statale che si pone in contrasto con le esigenze degli enti previdenziali salvo poi, dall’altro, avallare un’interpretazione palesemente in contrasto con tali esigenze (ma soprattutto coi precetti costituzionali). Sarebbe stato sufficiente un richiamo a tali precedenti per condurre la Corte ad una interpretazione conforme a costituzione, senza alcuna lesione di altri principi potenzialmente contrapposti. D’altro canto, negare l’estendibilità della “rottamazione” sui crediti di enti diversi dallo Stato non avrebbe creato alcuna frizione neppure con la riserva di legge in materia tributaria (troppe volte violata dalla stessa Corte di Cassazione per esigenze biecamente pro erario) [64]. In altri termini, come [continua ..]