Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2280-1332 / EISSN 2421-6801
G. Giappichelli Editore

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Per un regime tributario delle società benefit? (di Simone Ariatti)


Il modello ibrido della “società benefit” rappresenta una nuova modalità di fare impresa che permette ad un ente commerciale di perseguire anche un fine sociale, oltre che il tradizionale scopo di lucro. Il legislatore italiano, con la legge 28 dicembre 2015, n. 208, ha disciplinato questa figura, riconducendola però all'interno delle forme societarie già previste dal nostro ordinamento. Tuttavia, le peculiari caratteristiche di una società benefit impongono una riflessione relativa all'opportunità di introdurre un regime tributario speciale, fino a prospettare la possibilità di uno avente natura agevolativa, in considerazione del perseguimento di un interesse sociale e, altresì, dei relativi maggiori costi ad esso connessi.

The case for a specific tax discipline for benefit companies

The hybrid model of the “benefit company” represents a new way of doing business that allows a commercial entity to also pursue a social purpose, in addition to the traditional profit-making one. The Italian lawmaker, with law no. 208 of 28 December 2015, has regulated this figure, but bringing it back within the corporate forms already provided for by our legal system. However, the peculiar characteristics of a benefit company impose an analysis on the opportunity to introduce a special tax regime, up to the evaluate one providing a reduction of their tax burden, in consideration of the pursuit of a social interest and, also, of the relative higher costs connected to it.

SOMMARIO:

Premessa - 1. Responsabilità sociale delle imprese e fiscalità - 2. B-Corps e Società benefit - 3. Beneficio reputazionale e prospettive di favor fiscale - 4. Verso l’introduzione di un regime tributario specifico a favore delle società benefit - Conclusioni - NOTE


Premessa

L’ordinamento giuridico italiano da sempre si caratterizza per l’adozione di una visione classica circa il modo di fare impresa e dei vari modelli di business da adottare. Più nel dettaglio, vige un binomio tra la tutela della dimensione sociale (nelle sue varie declinazioni di tutela anche ambientale e culturale) e l’attività d’impresa, tale per cui vi sono stringenti preclusioni volte a ritenere incompatibile il fine di lucro perseguito dall’operatore economico, con il beneficio della collettività. Tuttavia, questa rigida (e, fino a poco tempo fa, insuperabile) dicotomia sembra non attanagliarsi più alla “fluida” realtà in cui viviamo, tanto da risultare del tutto anacronistico pensare che una finalità di interesse sociale possa esser perseguita solo ed esclusivamente da un ente non commerciale, poiché le società non possono avere altro scopo oltre al profitto. Inoltre, il periodo emergenziale ha contribuito ad accelerare il processo di superamento di questa concezione. Infatti, a riprova di ciò, gran parte delle criticità di cui ha sofferto la società nel fronteggiare la crisi sanitaria sono state superate proprio grazie all’intervento degli operatori economici in settori di esclusivo interesse comune [1]. Tali circostanze sono niente meno che la concreta dimostrazione del fatto che la libera iniziativa economica può attuarsi anche contribuendo attivamente al beneficio della collettività, affiancando al fine della massimizzazione del profitto la scelta, consapevole, di sostenere oneri e spese per scopi di interesse sociale. Lo scenario appena descritto porta inevitabilmente con sé l’interrogativo circa un eventuale superamento di questa concezione tradizionale d’impresa, per approdare ad una più ampia che tenga conto della possibilità che que­st’ultima, pur perseguendo le proprie finalità tipiche, si configuri altresì come agente creatore di utilità sociale, anche al di fuori delle ipotesi in cui tale ruolo le venga attribuito per espressa volontà normativa come nel caso, ad esempio, delle imprese sociali [2]. Riconoscere tale possibilità comporta però anche l’adozione di una valutazione del fenomeno imprenditoriale da un differente punto di vista, nel senso che non ci si dovrà più basare sul [continua ..]


1. Responsabilità sociale delle imprese e fiscalità

Utilità sociale, sussidiarietà, interesse generale, sostenibilità e imprese. Le principali tematiche che sottendono la presente indagine rinviano decisamente al tema della c.d. corporate social responsibility, sempre più attuale ed al centro di un ricco ed acceso dibattito [5]. Trattasi, stando alla prima definizione storicamente riconosciuta “dell’obbligo del businessman di seguire politiche, prendere decisioni e portare avanti delle azioni che sono desiderabili in termini di obiettivi e di valori per la società” [6]. In altre parole, una visione moderna di modelli imprenditoriali volti a fare dell’impresa un operatore in grado di rispondere alle esigenze comuni, orientando la propria attività con il fine di arrecare utilità (anche) alla società civile [7]. Tuttavia, dobbiamo anche interrogarci se questo cambio di paradigma relativo ad un nuovo modo di concepire, nonché di fare, impresa comporti o meno delle implicazioni a livello costituzionale. A tal proposito, dall’art. 41 della Costituzione si evince che l’iniziativa economica privata, oltre ad essere libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”. Dunque, la Costituzione pone un divieto non tanto al perseguimento (anche) dell’utilità sociale da parte del privato, quanto ad intraprendere azioni imprenditoriali contrastanti con essa. Inoltre, l’utilità sociale è salvaguardata anche all’art. 118 Cost., laddove il principio di sussidiarietà favorisce la partecipazione attiva dei cittadini – anche in forma aggregata – al fine di addivenire ad una proficua organizzazione delle risorse e dei bisogni comuni. Da ultimo, infine, possiamo riscontrare simili correlazioni, seppur in forma meno marcata, anche nell’art. 43 Cost., considerando che per “fini di utilità generale” lo Stato può indirizzare (persino mediante esproprio) “l’azione di determinate imprese” che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia, o a situazioni di monopolio, e che abbiano “carattere di preminente interesse generale”. Dal combinato disposto delle varie disposizioni costituzionali ora citate non traspare dunque una preclusione per il privato, all’interno della sua iniziativa economica, di perseguire fini diversi da quello tipico [continua ..]


2. B-Corps e Società benefit

Il punto di approdo a cui si è giunti dopo un primo approfondimento delle tematiche d’interesse consente di poter affermare che la strada tracciata va nella direzione della valorizzazione delle scelte imprenditoriali responsabili che si pongono in una zona intermedia tra il fine di lucro tipico ed il mero volontariato solidaristico. E di premiare (o quantomeno compensare) l’inizia­tiva di quelle società che operano per un beneficio comune ponendo in essere attività a priori svincolate da qualsivoglia riconoscimento agevolativo predeterminato. Sul punto, negli ultimi anni, si è assistito ad un significativo aumento di queste dinamiche in seguito alla nascita del movimento delle c.d. benefit corporations. L’origine di quello che ad oggi può considerarsi un movimento globale che si pone l’obiettivo di diffondere un nuovo paradigma di fare business (più evoluto e socialmente orientato) risale al 2006 e, segnatamente, all’idea di tre imprenditori fondatori della no-profit americana B Lab [21]. Obiettivo di questa realtà era (ed è tuttora) quello di promuovere la nascita di una community di imprese (le Certified B Corporation, o B-Corps) che, nel perseguire il proprio business, esprimessero l’impegno di innovare e massimizzare il loro impatto positivo sulla società e sull’ambiente. In altre parole, le B-Corps nascevano come imprese for-profit a tutti gli effetti caratterizzate da uno standard valutativo che consentiva loro – e consente tuttora – di misurare l’effettiva capacità di creare un valore condiviso a beneficio degli stakeholders. Di fatto, la certificazione (volontaria) altro non è che il formale riconoscimento dell’impegno assunto per un agire imprenditoriale socialmente orientato, secondo alti e qualificati requisiti di responsabilità, rigorosità e trasparenza. Nel corso degli anni conseguenti alla nascita di B Lab, la certificazione in questione è divenuta una dei principali obiettivi delle imprese tra le più attente, in particolare, alle esigenze della società civile ed alla tutela ambientale, contribuendo ad accelerare in modo assai significativo un modello capitalistico che nel preservare la creazione del profitto potesse parallelamente operare in maniera responsabile, contenendo il dispendio delle risorse e garantendo un beneficio per la società in [continua ..]


3. Beneficio reputazionale e prospettive di favor fiscale

L’inquadramento normativo poc’anzi operato, e segnatamente l’assenza di incentivi sottesi alla scelta di divenire una benefit corporation in Italia, dimostra che la motivazione principale che induce una società ad adottare tale modalità di conduzione imprenditoriale è chiaramente quella di esternare un forte interesse per le tematiche sociali, incrementando di conseguenza la propria visibilità e la propria reputazione sul mercato [33]. In altre parole, il legislatore ha inteso escludere ab origine che la scelta potesse fondarsi su eventuali, collaterali ed ulteriori vantaggi rispetto allo spirito volontaristico per il beneficio comune, stante altrimenti il rischio di “inquinare” la natura stessa delle società benefit e la loro missione. Sembra infatti che si voglia evitare un’inversione dei termini, ossia che il beneficio comune da fine dell’attività imprenditoriale diventi mero mezzo per ottenere un regime fiscale agevolativo (che, così ragionando, diverrebbe il nuovo scopo della società). L’affrontare questo timore nei termini di cui sopra, porta però ad un rallentamento dello sviluppo e dell’espansione delle società benefit, perché, in concreto, solo quelle realtà altamente strutturate ed aventi una solida base economica alle spalle si potranno permettere di possedere tale qualifica. Di contro, l’inevitabile conseguenza è quella di escludere, ad esempio, quelle realtà non ancora definitivamente strutturate, nelle quali, la voglia di crescere, di innovare e di rendersi parte di un percorso comune è molto forte, ma il (solo) beneficio reputazionale non sempre è sufficiente per garantire stabilità, ripetitività e, soprattutto, sostenibilità – nel tempo – delle attività necessarie per ottemperare all’obiettivo di perseguire interessi comuni svincolati da un ritorno economico. E ciò pare avere un peso ancora più importante se si considera che il panorama imprenditoriale italiano è caratterizzato principalmente da medie, piccole e micro imprese (con forte crescita delle start-up). Inoltre, si andrebbe anche prevenire un meccanismo distorsivo che potrebbe innescarsi nel caso in cui le società benefit, non essendo previsto alcun divieto a riguardo, cercassero un qualche beneficio fiscale nella disciplina di [continua ..]


4. Verso l’introduzione di un regime tributario specifico a favore delle società benefit

L’introduzione del credito d’imposta conferma che sono maturi i tempi per ponderare, in primis con gli operatori del settore che già sentono l’esi­genza di perseguire interessi comuni [40], e quindi con le Istituzioni preposte, la graduale e bilanciata introduzione di misure tributarie dedicate appositamente ed espressamente al mondo delle benefit corporations [41]. Misure che, calibrandone le modalità applicative, oltre a prevedere circostanze preclusive e finanche sanzionatorie, non siano il “fine ultimo” di chi intende divenire benefit, ma possano garantire una pianificazione idonea a salvaguardare la durata e la ripetitività delle attività, e dell’investimento “morale”, nel medio e lungo periodo. Il primo aspetto che sicuramente rileva è quello, come già sommariamente accennato, del trattamento delle spese sostenute per la parte c.d. non profit [42]. In altre parole, secondo quella che oggi è la teoria generale sottesa al principio di inerenza, l’interrogativo si pone in merito alla deducibilità dal reddito d’impresa dei costi e degli oneri sostenuti per la piena e corretta esecuzione delle attività dedicate alla realizzazione del beneficio comune [43]. Come noto, ai sensi dell’art. 109, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi …. sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito”. Da qui il sorgere di due tesi, una di interpretazione restrittiva che esalta il contenuto letterale della norma, volta a ritenere deducibili quelle componenti negative di reddito che trovano un riscontro diretto nel conseguimento di ricavi, ed una di interpretazione estensiva che valorizza il piano logico e sistematico della disposizione, ritenendo deducibili tutti i costi e gli oneri correlati all’attività d’impresa, idonei come tali ad apportare benefici anche indiretti [44]. In tale dibattito, la genericità della nozione di inerenza e la sua valenza astratta potrebbero costituire ostacolo non da poco nella gestione delle spese che, come già accennato, non afferiscono alla dimensione economica, bensì a quella dell’interesse collettivo. Su tale aspetto è [continua ..]


Conclusioni

In conclusione, e riprendendo in breve il ragionamento sotteso al presente scritto, si può affermare che la società attuale non risulta esser più in linea con la stringente dicotomia in base a cui le imprese devono avere il profitto quale unico ed esclusivo fine. Infatti, sulla base di una lettura del dettato costituzionale più ampia, pure in virtù della recentissima introduzione dell’ambiente quale valore fondamentale, risulta che (anche) i privati possano perseguire scopi di interesse sociale ed ambientale, al fine di contribuire al raggiungimento della sostenibilità, globalmente intesa. A tal proposito, le società benefit incarnano un modello imprenditoriale “ibrido” in cui, accanto al tipico scopo della massimizzazione del profitto, si inserisce anche uno scopo di interesse sociale (il quale tuttavia non va a sostituirsi al primo, differentemente da quanto accade per gli enti del terzo settore). Si ritiene pertanto che esse dovrebbero essere incentivate nella loro adozione, anche attraverso lo strumento della leva fiscale, senza ovviamente snaturare il principale proposito che deve animare un imprenditore nel costituire (o trasformare) una società benefit, ossia quello di porre in essere un’attività capace di generare un beneficio comune per la collettività. Stante l’attuale disciplina, però, questo incentivo risulta apprezzabile (quasi) solo sul piano reputazionale, nonostante la Legge di Bilancio del 2016, istitutiva di questa nuova “modalità” di fare impresa, preveda per essa maggiori oneri nonché, indirettamente, maggiori costi legati alla realizzazione di attività aventi finalità di beneficio comune che, al contrario, un’impresa tradizionale non si trova a dover sopportare. Ecco allora che un intervento legislativo volto ad introdurre agevolazioni fiscali potrebbe essere determinante nell’ottica di rendere l’istituto delle società benefit, non soltanto più attrattivo, ma soprattutto completo ed equilibrato sotto tutti i punti di vista: in tal senso si andrebbe a valorizzare la concreta attività svolta dalla società riconoscendo che quest’ultima, poiché tutela e persegue dei valori costituzionalmente protetti, è meritevole di un regime fiscale ad hoc. Un siffatto regime fiscale, introduttivo di agevolazioni, che accompagni le [continua ..]


NOTE