Negli ultimi decenni, le imprese con operatività internazionale hanno visto crescere i loro profitti senza subire un’equa tassazione a causa di sistemi fiscali nazionali e di regole di fiscalità internazionale ormai non più adeguati ad affrontare le nuove modalità di business delle imprese. La sfida dei sistemi fiscali oggi è fare in modo che non solo le multinazionali del digitale, ma tutto il business digitale delle imprese versi un’equa quota di imposte; e il percorso migliore verso questo obiettivo sembra essere quello di abbandonare la tradizionale strada della competizione per imboccare la nuova via della cooperazione internazionale tra gli Stati.
In recent decades, multinational companies have seen their profits grow without suffering fair taxation due to national tax systems and international tax rules that are no longer adequate to address their new business methods. The challenge of tax systems today is to ensure that not only digital multinationals, but the entire digital business of companies, pay a fair share of taxes; and the best way towards this goal seems to be to abandon the traditional approach of competition to take the new path of international cooperation between States.
Keywords: tax systems, multinational enterprises, digital economy, tax competition, international tax cooperation.
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1. Lo tsunami che ha reso anacronistiche le tradizionali regole di tassazione dei redditi d’impresa - 2. La deriva dei territori e le praterie aperte dell’economia globalizzata - 3. Gli effetti della globalizzazione a livello di Stato nazione .... - 4. … a livello europeo (una navigazione difficile tra limiti di azione fissati nei Trattati, paradisi fiscali interni alla UE e processi decisionali vincolati all’unanimità) - 5 … e a livello internazionale - 6. La lezione della pandemia e l’accelerazione impressa dalla proposta fiscale dell’amministrazione Biden: dalla concorrenza alla cooperazione - 7. La nuova fase del sistema di integrazione europeo aperta dalla pandemia: verso un ruolo predominante della politica sulla tecnica nell’evoluzione della fiscalità internazionale? - NOTE
Negli ultimi decenni le maggiori imprese con operatività internazionale hanno visto crescere i loro profitti, perfino nella recente fase di pandemia, senza subire un’equa tassazione a causa di sistemi fiscali nazionali e di regole di fiscalità internazionale rivelatisi inadeguati ad affrontare le nuove modalità di business delle imprese [1]. Come noto, le tradizionali regole per la tassazione dei redditi transnazionali d’impresa, basate sulla nozione di stabile organizzazione [2] e “incorporate” anche nei trattati internazionali, nacquero in un contesto economico totalmente diverso dall’attuale [3]. Si trattava di un contesto in cui era facile identificare i luoghi di produzione del reddito e in cui la residenza fiscale di un’impresa era in larga parte coincidente con il luogo di localizzazione degli stabilimenti produttivi, nonché di residenza degli stessi azionisti. Era un contesto in cui l’espansione di un’impresa sui mercati internazionali era ricollegata al necessario stabilimento di sedi fisse di produzione di beni materiali in ordinamenti diversi da quelli di residenza fiscale dell’impresa stessa. Era, in definitiva, un sistema pensato e costruito per un’economia brick and mortar, nella quale la produzione di considerevoli profitti d’impresa in territori diversi da quello di localizzazione della casa madre avrebbe imposto anche l’installazione di una presenza “fisica” su quei territori (sotto forma di stabile organizzazione se non addirittura di una società controllata). Nel tempo, molto è cambiato. Dapprima la concorrenza fiscale tra gli Stati, unitamente al progressivo affermarsi della libertà di stabilimento, ha offerto alle imprese la possibilità di una più facile localizzazione nei territori desiderati, superando i limiti imposti dai vecchi confini e approfittando delle permanenti asimmetrie tra gli ordinamenti fiscali nazionali. Nella produzione dei profitti di impresa sono poi via via divenuti assolutamente prevalenti gli intangibles [4], beni che essendo privi di materialità possono facilmente essere localizzati ovunque l’impresa decida, dirottandone così opportunamente anche i profitti verso giurisdizioni a bassa fiscalità. In un secondo momento, l’economia digitale e lo sviluppo della rete internet, che rappresenta per eccellenza [continua ..]
La globalizzazione dell’economia, modificando in profondità i processi produttivi e aumentando l’intensità dei legami tra i diversi Paesi ci ha riportato, per strade diverse, a un tempo precedente all’avvento degli Stati nazionali e all’affermazione del principio della statualità del diritto [7]. Rendendo permeabili le frontiere, l’economia globalizzata ha messo in crisi gli Stati nazionali sia sotto il profilo dell’esercizio della sovranità sul territorio [8], sia sotto il profilo del monopolio della produzione giuridica [9]. Gli Stati nazionali si sono scoperti vulnerabili [10]. L’economia e i commerci internazionali si sono mossi, come sempre, più velocemente del diritto [11]: mentre quest’ultimo è rimasto legato ai territori e ai loro confini, quegli stessi confini l’economia li ha varcati [12], dimostrando di non conoscere luoghi, ma solo mercati [13]. Come efficacemente osservato [14], la governance economica si è resa «sempre più indipendente dalla sovranità degli Stati e dalla rappresentanza, fino al punto di far dire a molti studiosi che si verrebbe creando una cornice in cui i mercati non sono più dentro gli Stati, ma sarebbero gli Stati a stare dentro i mercati». Il potere è “scivolato” dagli Stati alle forze economiche dei mercati [15], che in questo modo hanno finito per assumere quasi valenza politica [16]. Nonostante la globalizzazione dei commerci non sia fenomeno storicamente inedito, i nostri tempi ne rivelano una faccia particolare: il mercato globale non si limita a sottrarsi alla regolazione politica, ma mira a condizionarla e conformarla [17]; a emanciparsi dal sistema politico e a «sovraordinare la sua razionalità calcolistica al ‘codice’ della politica» [18]. La globalizzazione e l’integrazione dei commerci mondiali limitano l’autonomia dei singoli Paesi nel fissare le regole. La rete telematica è diventata uno spazio sopra i territori: un “non luogo” astratto e artificiale, nel quale si svolgono ormai gli affari dell’economia mondiale e nel quale le imprese di maggiori dimensioni e con operatività internazionale sono divenuti una sorta di “supercontribuenti” che non solo influenzano la regolamentazione dei singoli Paesi con la [continua ..]
Le nuove condizioni di business innescate, soprattutto per le imprese di maggiori dimensioni, dal mutato contesto economico e dal nuovo mondo interconnesso hanno generato, per quanto riguarda le imposte sui redditi, una pluralità di effetti a livello di Stato nazione, a livello europeo e a livello internazionale. Di fronte all’erosione delle basi imponibili determinata dal dirottamento dei profitti d’impresa verso giurisdizioni a bassa fiscalità, gli ordinamenti nazionali, incapaci di elaborare velocemente nuove regole fiscali adeguate al mutato contesto economico, hanno cercato di «mantenere le proprie irrequiete multinazionali a casa e di attirare le imprese straniere fornendo un ambiente economico favorevole» [23]; e, in questo gioco di forze, le multinazionali – nuovi “supercontribuenti” – hanno finito per guidare o almeno orientare i percorsi della nuova giuridicità. Non a caso, a livello di Stato nazione, nei Paesi industrializzati si sono affermati e diffusi sistemi fiscali che hanno condotto alla riduzione delle aliquote nominali di imposta sul reddito d’impresa (race to the bottom): tra il 1980 e il 2020 l’aliquota media globale dell’imposta sulle società è scesa dal 46 al 26 per cento. Su questo campo di battaglia hanno avuto gioco facile i paesi più piccoli che, caratterizzati da una più contenuta spesa pubblica da sostenere, si sono potuti permettere un’offerta fiscale più vantaggiosa, calamitando gli investimenti delle multinazionali (la perdita di gettito derivante dall’applicazione di un’aliquota ridotta sulle imprese risultava infatti ampiamente compensata dai guadagni sui profitti esteri attratti a tassazione). Al contempo, non è stato ridotto – e anzi talvolta è stato inasprito – il prelievo sulle basi imponibili dei contribuenti che, per scelta o necessità, rimanevano ancorati al territorio [24]. I sistemi fiscali dei paesi industrializzati hanno finito, in questo modo, per somigliarsi, quasi che quell’armonizzazione che i trattati istitutivi dell’Unione europea circoscrivevano al settore delle imposte indirette si fosse andata quasi involontariamente radicando anche nel diverso settore delle imposte sui redditi quale effetto indiretto dell’interconnessione dei mercati. La strategia della riduzione delle imposte societarie, basata [continua ..]
L’intervento dell’Unione europea in materia fiscale sconta, come noto, una serie di condizionamenti, primo tra tutti il fatto che, nel sistema dei Trattati, la politica fiscale in materia di imposte dirette risulta appannaggio praticamente esclusivo delle sovranità nazionali, visto che l’intervento dell’Unione europea risulta legittimato solo laddove necessario a rimuovere eventuali interazioni negative degli ordinamenti nazionali con il buon funzionamento del mercato unico [26]. Certo, l’esigenza di un’armonizzazione della fiscalità diretta e, in particolare, dell’imposta societaria [27], è stata ben presto chiaramente sentita a livello di Unione europea, proprio alla luce delle distorsioni suscitate dalle divergenze tra i diversi sistemi fiscali nazionali [28]. Fin dal Rapporto Ruding del 1992 si prefiguravano al riguardo due possibili opzioni: la “convergenza spontanea” tra le diverse legislazioni nazionali, che si sarebbe naturalmente determinata per effetto della concorrenza fiscale tra gli Stati, e l’“armonizzazione indotta”, attuata a mezzo di un diretto intervento degli organi europei [29]. Fu però subito chiara l’opportunità di optare per questa seconda soluzione, nella consapevolezza che il superamento delle più gravi distorsioni al funzionamento del mercato interno non poteva essere affidato alla mera convergenza spontanea degli Stati. Da qui la prospettiva di un’azione europea finalizzata a espungere le singole disposizioni distorsive presenti nei sistemi fiscali degli Stati membri; fissare un livello minimo di imposizione sulle società e regole comuni di determinazione della base imponibile per circoscrivere il fenomeno della concorrenza sleale; incoraggiare la massima trasparenza delle agevolazioni fiscali accordate dagli Stati membri per calamitare gli investimenti esteri. Ma i limiti dell’azione europea in materia fiscale restavano chiaramente segnati dai Trattati. Lo stesso Codice di Condotta del 1997 [30], che pure aveva ben individuato il vulnus della concorrenza fiscale dannosa, raccomandando agli Stati membri di non introdurre nuove misure considerate dannose (status quo) e di eliminare progressivamente quelle presenti nei rispettivi sistemi fiscali (smantellamento), disegnava in realtà un impegno “politico” degli Stati membri, di fronte al quale [continua ..]
Più attiva, nel contrasto all’elusione fiscale delle multinazionali, è stata l’OCSE. L’economia digitale ha imposto di ripensare alle fonti della ricchezza, alla catena di creazione del valore, ai presupposti di imposta e alla ripartizione dei diritti impositivi tra le giurisdizioni. Il Rapporto OCSE del 2015 sulla tassazione dell’economia digitale [44] proponeva di adottare, in sostituzione del criterio di libera concorrenza nelle transazioni intercompany, il principio della ripartizione dei profitti dell’intero gruppo tra i vari Paesi (fonte e residenza) in base a una formula prestabilita, che tenesse conto di tutti i fattori che concorrono a creare la ricchezza (i salari, le vendite, gli asset). Il principio – che avrebbe avuto l’effetto di sostituire, in un sol colpo, sia il criterio di tassazione nello Stato della residenza che quello di tassazione nello Stato della fonte – si è però rivelato di complessa attuazione perché avrebbe richiesto l’accordo e il coordinamento tra le giurisdizioni. Con specifico riferimento ai problemi legati alla tassazione delle società multinazionali, la scelta dell’OCSE è stata in ogni caso quella di superare la dimensione nazionale della tassazione per un modello cooperativo che riconducesse la tassazione dei profitti delle multinazionali laddove queste svolgono effettivamente la loro attività, e dove il valore aggiunto viene in realtà realizzato. In questa prospettiva è nato, nel 2013, il progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) finalizzato a chiudere i varchi aperti dalle regole di fiscalità internazionale che tuttora consentono l’erosione delle basi imponibili societarie e il loro shifting verso giurisdizioni a fiscalità privilegiata. Questo progetto, al quale l’Unione europea ha aderito autonomamente rispetto ai propri Stati membri [45] ha legato il proprio intervento a un approccio multilaterale del tutto nuovo. Se in precedenza gli Stati si erano limitati a concludere convenzioni bilaterali che si prestavano ad accogliere, nelle loro pieghe, fattispecie di pianificazione fiscale aggressiva, con il progetto BEPS l’approccio cambia: lo strumento della convenzione multilaterale previsto nell’Action 15 del progetto BEPS [46] consente, infatti, a ciascuno Stato membro che sottoscrive l’accordo, di modificare [continua ..]
La pandemia Covid-19, che ha messo alle strette gli ordinamenti nazionali e che, in un primo momento, ha fatto segnare un passo indietro nel livello di cooperazione tra gli Stati membri [54], potrebbe forse – in un più ampio arco temporale – operare come un agente di cambiamento e spingere gli stessi Stati a collaborare anziché competere [55]; questo sia sul piano europeo sia su quello internazionale. A livello europeo potrebbe rappresentare l’occasione per attuare finalmente, sul piano istituzionale, la svolta verso l’attribuzione alla Commissione europea di una potestà normativa di imposizione legittimata dal voto del Parlamento europeo ai sensi dell’art. 311 TFUE, superando così l’intima contraddizione rappresentata, all’interno dell’Unione europea, dalla combinazione tra la centralizzazione delle politiche monetarie e sociali e la decentralizzazione delle politiche fiscali [56]. A livello internazionale, potrebbe indurre ad affrontare il tema dell’erosione delle basi imponibili dei profitti societari con lo strumento della cooperazione internazionale. Proprio in questo quadro s’inserisce la recente proposta statunitense in tema di riforma dell’imposizione societaria, che ha rilanciato l’opportunità di una soluzione condivisa a livello internazionale per la tassazione dei profitti delle società multinazionali. Come noto, la precedente amministrazione Trump [57] con il suo slogan America First aveva perseguito una politica fiscale go alone [58] e aveva finito per arrestare il cammino del progetto BEPS [59], considerandolo quasi una sorta di escamotage dell’Unione europea per prendere di mira le grandi società del web, in prevalenza statunitensi. Al Pillar 1 Trump aveva opposto l’alternativa di estendere il nuovo sistema di tassazione (basato sul luogo in cui si effettuano le vendite, piuttosto che nel luogo di produzione) a tutte le multinazionali, senza guardare al loro settore di appartenenza: e questa proposta alternativa era stata, a sua volta, male accettata dall’Unione europea. La nuova amministrazione Biden, e il suo segretario al tesoro Janet Yellen, hanno dichiarato di voler finanziare gli imponenti piani di spesa sociale e rilancio degli investimenti pubblici post pandemia proprio con un aumento dell’imposta societaria [60]. Il piano d’investimenti [continua ..]
Come più volte ricordato nel corso di questo lavoro, nel sistema dei Trattati che hanno istituito e poi modificato l’Unione europea, le scelte fiscali in tema di imposte sui redditi sono da sempre rimaste sostanzialmente di competenza dei singoli Stati membri, i quali (e alcuni più di altri) hanno continuato a considerare il potere impositivo come una propria prerogativa sovrana irrinunciabile, fuori dagli ambiti delle politiche comuni delineati dal Trattato. Tuttavia, «la novità portata dalla pandemia sta nel fatto, eccezionale, che essa ha colpito la generalità degli Stati e, quindi, ha imposto di rispondere ai suoi effetti devastanti attraverso nuove fonti finanziarie sovranazionali di ampio raggio». [64]. In questa prospettiva, anche le iniziative in corso per riformare il sistema fiscale europeo a seguito della pandemia e dei nuovi impulsi arrivati dall’amministrazione Biden sembrano disegnare un nuovo inquadramento dei temi fiscali a livello europeo e internazionale, proseguendo e rilanciando il cammino intrapreso con il progetto BEPS: sembra realmente prendere corpo quella prevalenza della politica sulla tecnica già notata da alcuni Autori nel processo evolutivo della fiscalità internazionale [65]. Non a caso, la Commissione europea ha presentato il 18 maggio 2020 un nuovo e ambizioso piano di azione per la tassazione delle imprese (abbreviato con BEFIT– Business in Europe: Framework for Income Taxation) [66], caratterizzato da misure destinate a trovare attuazione entro il 2023; una nuova disciplina armonizzata dell’imposta sulle società per l’Unione europea, destinata a prendere il posto della mai decollata CCCTB, della quale la Commissione europea ha annunciato il ritiro. L’obiettivo è dotare l’Unione europea, attraverso una convenzione multilaterale, di un codice di regole armonizzate per tassare il reddito d’impresa in Europa, eliminando le distorsioni suscettibili di derivare dalla combinazione di 27 sistemi fiscali diversi e garantendo una più equa allocazione dei diritti impositivi tra gli Stati membri. La road map disegnata è quella di trasporre in norme europee i principi che saranno concordati a livello internazionale sulla tassazione delle grandi imprese multinazionali, grazie all’impulso proveniente dagli Stati Uniti, così da renderli vincolanti all’interno [continua ..]