Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2280-1332 / EISSN 2421-6801
G. Giappichelli Editore

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La condanna alle spese nel processo tributario. Compensazione delle spese in caso di Soccombenza dell'erario (di Giuseppe Marini)


Il presente studio analizza lo sviluppo della disciplina sulla ripartizione delle spese del processo tributario tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, cercando di comprendere se risulti tutt’oggi effettivo il principio “chi perde paga il giudizio”. Da tale ricognizione emerge, tuttavia, la criticabile tendenza delle Commissioni Tributarie – le quali fanno parte dell’organico del Ministero dell’Economia e delle Finan­ze – a disporre la compensazione delle spese in caso di soccombenza dell’erario, anche in situazioni in cui detta scelta non appare pienamente giustificata.

Condemnation to pay the expenses of tax litigation. Compensation of expenses in case of tax authorities' defeat

The present study analyses the development of the discipline on the distribution of court costs of the tax litigation between tax authorities and taxpayer, trying to understand if the “loser pays the costs of the trial” principle is still effective. However, this research shows the criticisable tendency of the Tax Courts – which are hierarchically dependent from the Ministry of Economy and Finance – to order the compensation of judicial costs when the tax authorities lose, even in situations where this choice does not appear fully justified.

SOMMARIO:

1. Considerazioni preliminari - 2. Sulla natura giuridica del rimborso alle spese del processo e della pronuncia giudiziale - 3. Il principio di soccombenza - 4. Segue: deroghe al principio di soccombenza: la compensazione delle spese - 5. La responsabilità per le spese processuali ha natura obiettiva ed accessoria - 6. Le spese e gli istituti deflattivi del contenzioso tributario. La c.d. soccombenza virtuale - 7. Le spese nel giudizio cautelare - 8. L'esecutività delle sentenze di condanna alle spese - 9. Il pagamento del doppio contributo alla luce delle recenti pronunce della Corte - 10. Conclusioni - NOTE


1. Considerazioni preliminari

Con il D.Lgs. n. 156/2015 è stata per la prima volta introdotta nel processo tributario la disciplina della compensazione delle spese di giudizio in modo autonomo rispetto al codice di procedura civile. Il legislatore tributario, che ben avrebbe potuto operare un rinvio formale all’art. 92, comma 2, c.p.c. ovvero ricopiarne il contenuto, ha disciplinato e­spressamente le ipotesi di compensazione, riproponendone, peraltro, la vecchia formulazione, laddove prevedeva che la compensazione dovesse essere disposta, oltreché nei casi di soccombenza reciproca, al ricorrere di “gravi ed eccezionali ragioni” espressamente motivate. È noto per coloro che frequentano le Commissioni Tributarie che nel caso di vittoria del contribuente in giudizio non viene quasi mai disposta la condanna alle spese dell’Agenzia delle Entrate, bensì si registra la tendenza al ricorso alla compensazione delle spese anche in caso di soccombenza dell’Erario. Un ricorso frequente alla compensazione delle spese vi è in altri settori del contenzioso [1]. Ad esempio, è altresì noto che spesso i giudici del lavoro, quanto meno prima delle riforme dell’art. 92 c.p.c., la disponevano in caso di soccombenza del lavoratore che quasi mai era condannato al pagamento delle spese di lite, in considerazione della sua particolare posizione. In quel caso la compensazio­ne era volta a tutelare la parte più “debole” del rapporto. Vi sono poi casi in cui è la stessa legge a “blindare” il soccombente, il cui reddito non supera determinate soglie, dalla condanna alle spese. Si pensi ad una norma quale l’art. 152 disp. att. c.p.c. che, al di fuori dei casi di temerarietà, nelle controversie per prestazioni previdenziali ed assistenziali tutela il cittadino-soggetto debole che avanza una pretesa contro lo Stato. Nel settore del contenzioso tributario, in cui la parte più debole è il contribuente, non si comprendono le ragioni di una simile prassi; la compensazione finisce per favorire lo Stato e penalizzare il contribuente, e costringe quest’ul­timo a chiedere tutela ad altro organo, sostenendo i costi conseguenti. Qualora la compensazione sia disposta frequentemente e risulti dunque prevedibile, il contribuente è indotto a non opporsi alle pretese dell’Erario di valore modesto, per quanto infondate, con il [continua ..]


2. Sulla natura giuridica del rimborso alle spese del processo e della pronuncia giudiziale

Taluni autori, sulla natura del rimborso delle spese, hanno ipotizzato che il rimborso alla parte vittoriosa da parte del soccombente avrebbe natura risarcitoria. La tesi non è condivisibile. Ai sensi dell’art. 2043 c.c. il risarcimento presuppone l’illiceità del fatto che ha generato il danno (nonché la sussistenza – ed i relativi oneri probatori – dell’elemento soggettivo); nel caso del processo, però salvi i casi di abuso del diritto di difesa (che rientrano nelle ipotesi di responsabilità aggravata), l’agire in giudizio (o resistere) costituisce esercizio di un diritto soggettivo costituzionalmente garantito e non può essere di per sé considerato illecito. Non potrebbe, inoltre, come pur sostenuto, scorgersi nella mera soccombenza un profilo di illiceità [4]. Ciò è ancor più vero nel processo tributario, in quanto l’impugnazione del­l’atto impositivo evita il consolidamento dell’atto stesso e della pretesa fiscale con esso veicolata. Accedere ad una simile impostazione – ovverosia che la condanna alle spese della parte soccombente, in quanto di natura risarcitoria, è possibile solo in caso di responsabilità aquiliana ad essa ascrivibile – mal si concilia con due or­dini di problemi: da un lato, la parte vittoriosa, in quanto tale, ha diritto al rimborso delle spese; dall’altro, la parte soccombente, se priva di responsabilità da illecito, non dovrebbe sopportare le spese processuali. La teoria della natura risarcitoria non è sostenibile, peraltro sulla base della formulazione degli artt. 91 c.p.c. e 15, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, già richiamato. L’agire in giudizio costituisce l’esercizio di un diritto e non può essere considerato un fatto illecito. La decisione sulle spese si pone in rapporto di stretta accessorietà [5] rispetto al processo nell’ambito del quale viene pronunciata e non può formare oggetto di apposito e separato giudizio, dovendo essere adottata dallo stesso giudice dinanzi al quale si è svolto il procedimento, che ne ha competenza esclusiva ed inderogabile. Nonostante l’art. 15 prescriva testualmente che la liquidazione sia disposta «con la sentenza» [6], si ritiene che la pronuncia sulle spese possa essere contenuta in qualsiasi [continua ..]


3. Il principio di soccombenza

L’art. 15, prevedendo la condanna alle spese del giudizio in capo alla parte che ne risulti soccombente, recepisce il principio della soccombenza statuito dall’art. 91 c.p.c. [7]. Tale principio entra in gioco all’esito del processo, nel momento in cui il giudice decide quale delle parti è risultata vittoriosa e quale soccombente (c.d. principio di globalità) [8]. Il principio è disciplinato in materia di spese processuali in combinato disposto con l’onere di anticipazione delle spese ex art. 8, D.P.R. n. 115/2002. Le spese del giudizio, inizialmente anticipate da ciascuna parte per la propria attività processuale, devono essere poste in via definitiva a carico della parte risultata soccombente la quale, oltre a sostenere le spese che ha già anticipato per sé, dovrà rimborsare le spese sostenute da controparte vittoriosa. La necessità di ricorrere al giudice «non deve tornare a danno di chi ha ragione», diversamente la parte vittoriosa conseguirebbe un diritto non integro, ma ridotto in ragione delle spese sostenute. Nell’ipotesi in cui la parte opponga il rifiuto di anticipare le spese, non si determina la sospensione, l’interruzione o l’estinzione del giudizio, ma si procede al recupero delle somme dovute mediante procedura di riscossione coattiva. È gravato dall’obbligo di rifusione delle spese il “soccombente”, individuato, secondo una nota prospettazione: a) nella parte alla quale è negato, in tutto o in parte, il riconoscimento della situazione giuridica dedotta in giudizio; b) nella parte nei cui confronti è dichiarata l’esistenza di una situazione giuridica altrui anche se essa non abbia contestato in giudizio la pretesa avversaria o addirittura non si sia costituita. Come già sottolineato, la soccombenza non è esclusa dalla circostanza che la parte sia rimasta contumace o abbia riconosciuto come fondata la pretesa che aveva prima richiesto l’intervento del giudice. L’unico limite al riconoscimento della parte soccombente – la cui identificazione è rimessa al potere del giudice del merito – è costituito dal principio per cui le spese non possono, neppure in parte, essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa [9]. Nel liquidare le spese il giudice deve considerare solo i costi [continua ..]


4. Segue: deroghe al principio di soccombenza: la compensazione delle spese

Al principio generale di soccombenza sono poste una serie di deroghe [10]. La principale è rappresentata dal potere riconosciuto al giudice, al ricorrere di determinate condizioni, di disporre la compensazione delle spese fra le parti, la quale non è altro che una sorta di neutralizzazione del principio di soccombenza. Nel corso degli ultimi anni, un particolare sviluppo ha vissuto la discrezionalità del giudice in relazione alla compensazione delle spese di giudizio [11]; compensazione che, ricordiamo, non aveva alcuna specificità in ambito tributario. Nella disciplina previgente, fino ai processi instaurati prima del 1° marzo 2006, la compensazione era prevista, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., in ipotesi di soc­combenza reciproca ovvero in presenza di «altri giusti motivi». Successivamente, in relazione ai processi instaurati dopo la data sopra indicata, l’art. 2, comma 1, L. n. 263/2005 è intervenuto sull’art. 92 c.p.c., comma 2, disponendo l’obbligo di indicare esplicitamente in sentenza i “giustificati motivi”. Tale intervento normativo non ha comportato un sostanziale mutamento nella insindacabilità della pronuncia sulla compensazione delle spese, dato che la modifica ha inciso solo sull’aspetto della esteriorizzazione dei motivi giustificatori, potendo risultare i medesimi i più disparati con il solo limite della illogicità, contraddittorietà, erroneità in fatto [12]. Il legislatore è nuovamente intervenuto con l’art. 45, comma 11, L. n. 69/2009, disponendo il passaggio dai “giusti motivi” di compensazione ad altre “gravi ed eccezionali ragioni”. Tale regola è stata definitivamente cristallizzata con la legge di riforma del processo tributario che ha soppresso il rinvio ex art. 15 in commento all’art. 92, comma 2, c.p.c. – nuovamente modificato ad opera della L. n. 132/2014, poi dichiarato parzialmente incostituzionale – e che prevede ora, in via autonoma che le spese possono essere compensate «soltanto in caso in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate». Ci si trova, comunque, in presenza di una norma elastica, che va interpretata alla luce del principio cardine in tema di riparto dei costi del processo e la cui [continua ..]


5. La responsabilità per le spese processuali ha natura obiettiva ed accessoria

L’atteggiamento soggettivo delle parti in sede di allocazione dei costi viene preso in considerazione non solo quale giusto motivo per disporre la compen­sazione delle spese, ma anche con riferimento alla fattispecie della lite temeraria disciplinata dall’art. 96 c.p.c. e applicabile al processo tributario per espresso richiamo dell’art. 15, comma 2 introdotto dal D.Lgs. n. 156/2015 [15]. Secondo l’art. 96 c.p.c., rubricato “Responsabilità aggravata”, l’abuso processuale ricorre quando «risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave»; la parte soccombente in questa fattispecie è condannata oltre che alla refusione delle spese processuali anche al risarcimento del danno subito da controparte. Quanto già previsto in dottrina e giurisprudenza è stato formalizzato dal­l’art. 15, relativamente all’applicazione dell’istituto anche al processo tributario [16]; peraltro una serie di considerazioni deponevano in senso favorevole al­l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 96 c.p.c. ancor prima della novella del processo tributario. In primo luogo, il riferimento al regime delle spese nel processo civile operato nella legge di delega e nel D.Lgs. n. 546/1992 era da considerarsi generale e inoltre mancava una esplicita esclusione. In secondo luogo, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, si è riconosciuta la configurabilità della responsabilità aggravata della Pubblica Amministrazione sia nel processo civile che nel processo amministrativo. In terzo luogo, bisogna considerare che le peculiarità strutturali del processo tributario (la natura delle parti, delle azioni proponibili, della composizione delle Commissioni) non sono d’o­stacolo all’applicabilità dell’istituto. La condanna alle spese processuali, come già sottolineato, si fonda sulla soc­combenza oggettiva, diversamente la responsabilità per lite temeraria richiama anche i principi di cui all’art. 2043 c.c. [17]. Invero, lo schema aquiliano emerge dai requisiti richiesti per la sua configurazione. La responsabilità di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c. necessita di alcuni presupposti. Primo presupposto, la soccombenza totale della parte [18], anche in virtù di una [continua ..]


6. Le spese e gli istituti deflattivi del contenzioso tributario. La c.d. soccombenza virtuale

Abbiamo già visto come nel diritto tributario un ricorso disinvolto alla com­pensazione a favore dell’erario produce un effetto deflattivo del contenzioso – deflazione non virtuosa perché il contribuente viene dissuaso anche quando ha (o ritiene di avere) chiaramente ragione –, laddove una riduzione del contenzioso si può avere anche senza pregiudicare i diritti dei contribuenti attraverso il ricorso a specifici istituti. Ad esempio mediante l’impiego di strumenti di risoluzione alternativa delle liti, quali il reclamo e la mediazione art. ex 17 bis, D.Lgs. n. 546/1992 [20]. La norma prevede che, per le controversie non superiori ad una determinata soglia, il ricorso introduttivo del giudizio davanti alla Commissione Tributaria Provinciale, produce gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione dando vita ad un procedimento conciliativo. Nel caso di reclamo o di mediazione, la disciplina delle spese si applica solo nel caso in cui la controversia sia proseguita dinanzi al giudice. In questo caso, l’art. 15, comma 2 septies, compiendo una sorta di forfetizzazione, preve­de una maggiorazione delle spese di giudizio del 50% ed esonera il giudice dal quantificare le spese sostenute in sede amministrativa. Nella riscrittura dell’art. 17 bis il legislatore del 2015 ha lasciato, tuttavia, numerose questioni irrisolte. Così, continua a tacere, la norma, sul regime delle spese sostenute nella fase “amministrativa” nell’ipotesi in cui il reclamo venga accolto; silenzio, questo, non integrabile in via interpretativa mutuando le regole della soccombenza, proprio perché non ha preso avvio la fase processuale e gli artt. 92 ss. c.p.c. e 15 non sono applicabili. Alcuni autori hanno ipotizzato l’applicazione del principio della c.d. soccombenza virtuale, in virtù del quale la soccombenza deve essere individuata in base ad una ricognizione della “normale” probabilità di accoglimento della pretesa della parte su criteri di verosimiglianza o su indagine sommaria di deliberazione del merito. Questa tesi non ha avuto seguito ed è stata rigettata, poiché verosimilmente l’Ufficio finanziario, sarebbe scarsamente invogliato al­l’accoglimento dei reclami, sapendo di rischiare comunque la soccombenza virtuale e sostenerne le [continua ..]


7. Le spese nel giudizio cautelare

Importanti novità si registrano anche con riferimento agli artt. 47, 52, com­ma 2 ss. e 62 bis, D.Lgs. n. 546/1992 per la fase cautelare, in cui si esplica l’in­tento del legislatore di sgomberare il rito delle istanze cautelari temerarie per difetto del o da ingiustificate resistenze da parte dell’Amministrazione Finanziaria. Nella disciplina previgente, si riteneva non dovesse statuire sulle spese processuali la pronuncia sulla sospensione cautelare. Il legislatore del novellato art. 15 ha introdotto, al comma 2 quater, il principio della soccombenza anche nell’ambito della fase cautelare [24]. Il giudice dovrà pronunciarsi anche sulle spese relative a quella fase e tale pronuncia conserva efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio, salvo diversa espressa statuizione nella sentenza di merito. La non impugnabilità dell’ordi­nanza cautelare ex art. 47 D.Lgs. cit. – che quindi è efficace fino alla definizione del giudizio – non costituisce un limite alla tutela della parte dichiarata soccombente nella fase cautelare perché il giudice può disporre diversamente alla fine del processo. In mancanza e, dunque, nell’ipotesi in cui il provvedimento che definisce il giudizio non si è pronunciato, resta ferma l’ordinanza cautelare sul punto. La nuova disciplina, prevedendo la conservazione dell’efficacia dell’ordi­nanza cautelare, ha dotato la pronuncia cautelare sulle spese di una autonomia anche maggiore rispetto a quella delle pronunce cautelari emesse nell’am­bito del processo civile e di quello amministrativo. In relazione a queste ultime sono contemplati appositi rimedi impugnatori immediati, come il reclamo o l’appello. In relazione alla pronuncia cautelare nel processo tributario nulla di simile è previsto [25]. Peraltro, questa autonomia dell’ordinanza sulle spese nella fase cautelare rispetto al provvedimento di merito riverbera i suoi effetti anche per il caso di estinzione del giudizio. Proprio per la sua autonomia, in caso di estinzione del giudizio dell’ambito del quale è stata pronunciata, l’ordinanza cautelare sopravvive all’estinzione. Al contrario, la sentenza sulle spese emessa nel giudizio di merito, resta travolta dall’inefficacia degli atti processuali derivante [continua ..]


8. L'esecutività delle sentenze di condanna alle spese

Anteriormente alla riforma operata dal D.Lgs. n. 156/2015 – applicabile ai ricorsi notificati a partire dal 1° giugno 2016, come previsto dall’art. 12, comma 1, D.Lgs. cit. – il principio della provvisoria esecutività della sentenza, e quindi anche del capo sulle spese, ex art. 282 c.p.c. non era applicabile al processo tributario [26]. L’azione esecutiva, quindi, poteva essere promossa, anche in ordine alle spese di giudizio, solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza. In particolare, l’Ufficio o l’ente impositore potevano procedere, in esecuzione della sentenza, mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo. Il contribuente o il difensore distrattario delle somme potevano, alternativamente, ini­ziare l’espropriazione forzata nelle forme ordinarie ovvero esperire il giudizio di ottemperanza [27]. La disciplina è stata notevolmente modificata ad opera del D.Lgs. n. 156/ 2015 e prevede ora diverse soluzioni a seconda che si tratti di sentenze di con­danna al pagamento di somme a favore del contribuente o di sentenze di condanna del contribuente al pagamento delle spese. Nel primo caso, ai sensi dell’art. 69, D.Lgs. n. 546/1992 (favor contribuente), è previsto che le sentenze, comprese le disposizioni sulle spese di giudizio, siano immediatamente esecutive, come previsto nel processo civile ai sensi del­l’art. 282 c.p.c. Come specifica il comma 4 della norma, il pagamento delle somme dovute deve essere eseguito entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza e, in caso di inadempimento, diversamente dalla disciplina precedente, il contribuente può solo promuovere un giudizio di ottemperanza, senza necessità di formale costituzione in mora né di attendere il passaggio in giudicato della sentenza. Nel secondo caso, l’art. 15, comma 2 sexies consente la riscossione delle somme da parte dell’Ufficio o dell’ente impositore mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo, dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Questo diverso regime risponde all’esigenza di tutelare la parte processuale “debole” nel processo tributario, ovverosia il contribuente.


9. Il pagamento del doppio contributo alla luce delle recenti pronunce della Corte

L’art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228 ha introdotto il comma 1 quater all’art. 13, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (“Testo Unico in materia di spese di giustizia”), a tenore del quale «quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di con­tributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso». Ai sensi dell’art. 1, comma 19, L. n. 228/2012, tale disposizione si applica ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge e, quindi, ai giudizi instaurati a partire dal 30 gennaio 2013. Lo scopo della norma è di scoraggiare il potenziale ricorrente dal proporre impugnazioni avventate o aventi quale fondamentale, se non unico, scopo quello di prolungare l’iter processuale [28]. A pochi anni dalla sua introduzione, in relazione all’art. 13, comma 1 quater è stata sollevata, da parte della CTR di Catanzaro, questione di legittimità costituzionale nella parte in cui tale norma non prevedeva la possibilità che, nel processo tributario d’appello, anche l’Amministrazione Finanziaria potesse essere condannata al pagamento del c.d. “doppio contributo unificato”, essendo, quest’ultima, esonerata dal pagamento del contributo unificato mediante il meccanismo della prenotazione a debito. La questione è stata ritenuta inammissibile dalla Consulta. Dopo aver affermato che l’esenzione dal pagamento del contributo unificato attraverso il meccanismo suddetto e il mancato assoggettamento al suo raddoppio in caso di integrale soccombenza si giustificherebbero alla stregua del rilievo che lo Stato si troverebbe ad essere contestualmente creditore e debitore della prestazione tri­butaria, la Corte rileva che il rimettente muove dall’errata premessa interpretativa che la norma censurata trova applicazione al processo tributario d’appello. In particolare, la Corte, con sent. 2 febbraio 2018, n. 18, afferma [continua ..]


10. Conclusioni

Generalmente, non si rimprovera alle Commissioni di essere faziose perché organiche al Ministero dell’Economia. Tuttavia, una cosa lascia veramente perplessi e riguarda un atteggiamento sovente a favore del fisco in tema di condanna alla rifusione delle spese di giudizio. Nonostante i molteplici interventi normativi sopra richiamati, sempre chia­ramente volti a dare effettività al principio “chi perde paga il giudizio”, si continua ad assistere ad un atteggiamento di riguardo nei confronti dell’Ammini­strazione Finanziaria, che nuoce, in primis, alla funzione ripristinatoria della giustizia – specie nelle controversie di modico valore che spesso riguardano i contribuenti più deboli –, alla celerità del contenzioso (perché riduce l’appeti­bilità degli strumenti deflattivi), alla stessa Amministrazione Finanziaria la quale, non trovando vantaggi nell’abbandonare controversie in cui risulterà comunque soccombente, porta avanti un numero eccessivo di giudizi a discapito della qualità delle singole difese. A tutela dunque della legittimazione istituzionale delle Commissioni Tributarie, non si può che auspicare una più puntuale osservanza ed il massimo rigore nell’applicazione delle previsioni legislative sulla rifusione delle spese di lite, nella consapevolezza che proprio il legame intercorrente tra Commissioni e Ministero, a cui sono attribuiti poteri di vario genere nei confronti di giudici tributari e segreterie (come, ad esempio, il potere di determinare il compenso), dovrebbe spingere le Commissioni Tributarie a sentirsi come Pompea, la moglie di Cesare, e, quindi, a comportarsi non solo per essere, ma anche per apparire al di sopra di ogni sospetto.    


NOTE