Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2280-1332 / EISSN 2421-6801
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La tutela ambientale: profili tributari (di Massimo Basilavecchia)


I tributi ambientali diverranno nel tempo il futuro degli ordinamenti tributari e li caratterizzeranno, al di là del gettito che essi potranno realizzare. Lo studio analitico iniziato da circa vent’anni dalla dottrina vede oggi sviluppi sempre più significativi, che nel contributo si cerca di sintetizzare rilevando i profili di maggiore complessità del tema.

Environmental protection: tax profiles

Environmental taxes will soon become the future of tax systems and will characterise them, regardless the revenue they may achieve. The analytical study started about twenty years ago by scholars shows today significant and growing developments, whose most complex features are treated in this study.

Contributo non soggetto a revisione esterna. Lo scritto trae spunto dalla relazione tenuta al convegno “La tutela dell’ambiente: profili giuspubblicistici” del 9 maggio 2019, presso l’Università degli studi Guglielmo Marconi.

SOMMARIO:

1. Ambiente, fisco, costituzione - 2. La rilevanza del soggetto attivo nella tassazione ambientale - 3. La distribuzione del peso del tributo ambientale - 4. Il ruolo della traslazione - 5. Prospettive - NOTE


1. Ambiente, fisco, costituzione

Accostandosi al tema della tassazione collegata a misure ambientali, occorre premettere in primo luogo che i profili di rilevanza della tutela dell’ambiente, sotto il profilo tributario, si riconducono sostanzialmente a tre aspetti: il primo costituito dalla destinazione del gettito, che potrebbe essere riservata in ta­luni casi a misure funzionali alla tutela dell’ambiente; il secondo collegato a possibili misure agevolative [1], o al contrario di inasprimento, applicate sui tributi tradizionali e finalizzate a promuovere comportamenti virtuosi sotto il profilo dell’ecologia; il terzo, infine, apre lo scenario dei tributi ambientali in senso stretto, ossia di quei tributi che assumono il consumo dell’ambiente, o comunque le diseconomie ambientali, a presupposto del tributo e/o a criterio di determinazione della base imponibile. Come in molti altri casi, si pone un problema di verifica della compatibilità delle regole internazionali [2] con l’ordinamento interno; viene in risalto in primo luogo l’art. 53 Cost., con le connesse difficoltà interpretative del concetto di capacità contributiva. È scontato, invero, che l’apertura a forme di tassazione orientate verso presupposti originali, che identificano l’attitudine alla contribuzione in fatti circostanze e situazioni non immediatamente trasponibili in termini di ricchezza disponibile, presuppone che nel principio di capacità contributiva si individui un limite alla discrezionalità del legislatore piuttosto elastico, ossia indirizzato alla verifica di razionalità del presupposto impositivo, concepito come fattore di distinzione tra situazioni, alcune delle quali soltanto idonee alla contribuzione [3]. Ciò posto a mo’ di premessa, non appare dubbio che il dovere di concorso alla spesa pubblica – dovere che impone non solo di escludere da esso situazioni prive di capacità, ma anche di colpire tutte le manifestazioni nelle quali quella capacità sia ravvisabile – conviva con altri principi costituzionali e con esso debba confrontarsi; e se non appare dubbio, oggi, che la tutela ambientale abbia spazio e dignità nella Costituzione, e che pertanto possa legittimare misure agevolative distribuite su tributi non modellati su aspetti di rilevanza ambientale, se ne deve trarre la conseguenza che in termini di [continua ..]


2. La rilevanza del soggetto attivo nella tassazione ambientale

A ben vedere, se si accetta – come pare socialmente ed economicamente indispensabile – l’idea che disporre di beni pubblici e arrecare con la propria attività costi alla collettività possa giustificare la tassazione con imposte nelle quali il fatto imponibile sia direttamente desunto dall’impatto ambientale di quelle situazioni, non si fa che articolare, in modo adeguato alle esigenze di una società ormai condizionata dalla emergenza ambientale, una forma moderna di redistribuzione, non dissimile da quella insita in ogni imposta [5]. L’obiettivo ideale per un ordinamento tributario moderno e adeguato ai tempi dovrebbe prevedere pochi tributi, articolati su più livelli di governo, nel rispetto dell’art. 117 Cost.: quindi armonizzando tali tributi alle regole europee e valorizzando le indubbie competenze delle autonomie (regionali, provinciali e comunali) in materia ambientale [6]. La principale caratteristica del tributo ambientale, rispetto alla generalità dei tributi che possiamo definire come tradizionali, è data dalla centralità del soggetto attivo, rispetto al soggetto passivo e alla stessa fattispecie oggettiva da sottoporre a tassazione. Si intende cioè sostenere che, mentre negli altri tributi è in genere centrale la relazione tra soggetto passivo e fatto imponibile, perché alla disponibilità, da parte del primo, del beneficio economico derivante dal secondo è attribuito un peso determinante nella disciplina del tributo, quando invece il prelievo vuole essere commisurato all’ambiente diventa elemento decisivo il pregiudizio ricevuto dall’ente pubblico, o meglio dalla collettività che si esprime nell’ente pubblico, per effetto della realizzazione di determinati fatti, atti o attività “impattanti”.


3. La distribuzione del peso del tributo ambientale

Si assiste però, sotto questo aspetto, ad un effetto anomalo: perché se da un lato il tributo ambientale mira a tutelare la collettività, e viene dunque istituito a tutela della stessa al fine di ridurre determinati comportamenti impattanti o per lo meno al fine di trarre dagli stessi risorse pubbliche – che possono ad esempio compensare la maggior spesa sanitaria derivante da quei comportamenti –, dall’altro esso si riversa, spesso in modo inevitabile, sulla stessa collettività che il tributo intende tutelare; quindi salvaguardata sotto l’aspetto “salute”, ma colpita economicamente, spesso per situazioni che non è facile indirizzare in modo diverso. Uno dei problemi è allora quello di individuare soggetti passivi, in senso economico, che siano coincidenti con i responsabili del pregiudizio ambientale, con il consumo della risorsa. Effetto che non si realizza, se la gran parte dei tributi ambientali finisce con lo stabilire la soggettività passiva di contribuenti ai quali, tuttavia, è attribuito un diritto o dovere di rivalsa sui fruitori del servizio (si pensi ad es. al tributo per il conferimento dei rifiuti in discarica disciplinato dalla L. n. 549/1995, art. 3, commi 24 ss., che si ripercuote sui costi della raccolta rifiuti, ovvero all’imposta sulle emissioni sonore di cui alla L. n. 342/2000, art. 90, o a quelle importanti forme di tassazione ambientale riconducibili a inasprimenti delle “accise” [7]). Le prospettive di incremento di tributi ambientali sono dunque molto ampie e probabilmente fondamentali in chiave non solo strettamente tributaria, ma anche economico-sociale, in senso più ampio [8]. Ma vi sono nodi rilevanti da sciogliere, di impatto anche politico [9]. Lo conferma il clamore delle polemiche seguite – con molte dannose banalizzazioni – all’ipotesi di introduzione di plastic tax, o di sugar tax, nella manovra di bilancio per il 2020. Di particolare efficacia, sotto questo aspetto, si rivelano quelle forme (poche, per la verità) di imposizione “ambientale” che riescano a distinguere la collettività tutelata dalla gamma di soggetti passivi del tributo: è il caso ad es. dell’imposta di soggiorno, che colpisce, a beneficio dell’ente portatore delle esigenze dei “residenti”, [continua ..]


4. Il ruolo della traslazione

La difficoltà di traslazione del tributo sui soggetti fruitori dei beni o dei servizi forniti dal soggetto passivo del tributo ha ad esempio caratterizzato l’e­sperienza dell’IRAP, imposta tuttora centrale nel nostro ordinamento tributario, la quale ha, tra le sue molteplici rationes, anche quella di colpire le diseconomie esterne, ossia i “costi” derivanti alla collettività dalla presenza di at­tività organizzate in un determinato territorio. Il profilo della difficile traslazione dell’IRAP fu posto in luce dalla commissione di studio che pose le basi per l’istituzione dell’imposta a metà degli anni novanta; esso rappresentò proprio uno degli elementi decisivi per scegliere l’IRAP quale imposta centrale nella riforma che tra il 1996 e il 1998 semplificò il sistema tributario, sostituendo con tale imposta almeno cinque o sei tributi ed entrate contributive preesistenti (tra essi, in particolare, l’ICIAP, che alla logica della diseconomia già si ispirava). Nel D.Lgs. n. 446/1997, invero, né si prevede la rivalsa dell’IRAP, né si lascia immaginare in quale modo e in quali tempi il suo peso possa essere trasferito dal soggetto passivo sui propri clienti [10]. Si tratta di un’esperienza che il legislatore del futuro dovrebbe sempre avere ben presente; anche se, curiosamente, il profilo della difficoltà di traslazione è stato ignorato dalla Corte costituzionale, che nella sent. n. 156/2001, che sancì la legittimità costituzionale del tributo, proprio nella (asserita) possibilità di rivalsa individuò uno dei motivi di razionalità nella scelta dei soggetti passivi. Alla mancanza – o quanto meno alla estrema difficoltà – della traslazione, tuttavia, ha restituito la giusta dimensione e rilevanza la successiva sent. 3 ottobre 2006, C-675/03, con la quale la Corte di Giustizia riconobbe la compatibilità dell’IRAP con il sistema IVA, anche e proprio sulla base della differenza sostanziale derivante dal fatto che, mentre l’IVA è costruita – sui pilastri degli istituti della rivalsa e della detrazione – al fine specifico di colpire beni e servizi all’atto dell’immissione in consumo, tale profilo resta del tutto estraneo all’IRAP.


5. Prospettive

I tributi ambientali diverranno nel tempo il futuro degli ordinamenti tributari e li caratterizzeranno, al di là del gettito che essi potranno realizzare. Lo studio analitico iniziato da oltre vent’anni dalla dottrina [11] vede oggi sviluppi sempre più significativi, che conducono a riflettere sia sulle prospettive di introduzione di tributi ambientali in senso stretto, sia sulla conformazione di norme agevolative – o, viceversa, di inasprimenti – che assegnino una finalità “ambientale” a tributi che non possono definirsi in senso stretto ambientali, ma che possono prestarsi a esprimere differenziazioni non discriminatorie, se ispirate a dette finalità (si pensi ad esempio, al settore delle accise, da sempre tradizionalmente suscettibile di articolarsi in aliquote differenziate in funzione dell’uso del prodotto e della sua “nocività”).


NOTE