La normativa fiscale può assumere un ruolo fondamentale per il perseguimento degli obiettivi costituzionali di promozione e tutela del patrimonio culturale. Il presente studio riguarda, anche in un’ottica de jure condendo, le misure fiscali dirette alla valorizzazione e alla salvaguardia sia dei beni immobili che di quelli mobili detenuti nell’ambito d’impresa e di lavoro autonomo. In particolare, in relazione agli immobili vincolati si analizza la portata applicativa delle agevolazioni fiscali contenute negli artt. 90 e 100 del TUIR, e si conclude evidenziando le criticità e le possibili soluzioni in relazione alla deducibilità dei costi sostenuti per l’acquisto di opere d’arte.
Tax legislation can play a fundamental role in pursuing the constitutional objectives of promoting and protecting cultural heritage. This paper focuses, also from a de jure condendo perspective, on certain tax measures aimed at enhancing and safeguarding both real estate and movable assets held in the context of business income and self-employment income. In particular, the work analyses the scope of application of tax reliefs provided by Arts. 90 and 100 of the Income Tax Consolidated Act (ITCA) with regard to heritage-protected buildings, and concludes by highlighting the critical issues and possible solutions in relation to the tax deductibility of costs incurred for the purchase of works of art.
Keywords: cultural heritage, tax breaks, entertainment expenses, business income, self-employment income.
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1. Considerazioni introduttive sulla rilevanza costituzionale degli interventi normativi a supporto delle azioni di valorizzazione e tutela dei beni culturali - 2. Sulla funzione incentivante delle disposizioni contenute negli artt. 90 e 100 del TUIR con riferimento ai beni culturali - 3. Sugli ostacoli alla deduzione del costo sostenuto per l’acquisto di opere d’arte - 4. Sull’ipotesi di dedurre alla stregua di spese di rappresentanza i costi sostenuti per l’acquisto di opere d’arte - NOTE
Il tema che intendo affrontare in questo intervento concerne il trattamento fiscale, nel comparto delle imposte sui redditi, dei beni culturali detenuti dalle imprese e dai lavoratori autonomi. Un tema che si presta ad essere trattato sia nella prospettiva di analisi della legislazione vigente, sia in una prospettiva de jure condendo, allorquando il dato positivo non può essere plasmato fino a realizzare quegli obiettivi di promozione e tutela che sono sanciti dalla Costituzione. Si deve, infatti, ricordare che il tema della «tutela del patrimonio storico artistico della Nazione» è collocato nell’art. 9 Cost. e, non a caso, è stato posto dai Costituenti tra i Principi Fondamentali della Costituzione repubblicana, accanto ai valori universali della democrazia, dell’eguaglianza, della dignità delle persone e della pace. Esso viene, dunque, considerato come elemento di unificazione dello Stato, nel quale si ritrovano le radici di un popolo che diventa Nazione e la sua proiezione verso il futuro. Peraltro, non deve sfuggire la circostanza che la «tutela» del patrimonio artistico, cui si riferisce il secondo comma dell’art. 9 Cost., si salda con la promozione della cultura, di cui si occupa il primo comma, orientando l’intervento del legislatore secondo un approccio integrato nel quale le azioni di promozione (e di fruizione), da un lato, e di tutela, dall’altro, sono tra loro reciprocamente funzionali [1]. Questa visione sinergica di tutela e promozione trova riscontro nel Codice dei beni culturali (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – d’ora in avanti, anche solo “Codice”), il quale, all’art. 1, comma 2, sancisce che «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura». Ebbene, di fronte a questo assetto ordinamentale, a me pare che anche la c.d. variabile fiscale possa giocare un ruolo fondamentale, in almeno due direzioni. La prima attiene all’istituzione di tributi con una funzione lato sensu “culturale”, vale a dire di tributi che consentono di finanziare le diseconomie derivanti dalla fruizione dei beni culturali (come accade, ad esempio, con le imposte di soggiorno per le città d’arte) oppure di tributi il cui gettito serve per finanziare determinati [continua ..]
Ebbene, nell’affrontare il tema, ritengo doveroso porre alcune premesse. Primariamente è da evidenziare la mancanza di una disciplina di raccordo, organica e sistematica, tra le disposizioni inerenti al reddito d’impresa ed al reddito di lavoro autonomo e la normativa contenuta nel Codice. Disorganico è altresì il rapporto tra le norme che si occupano dei beni culturali nell’ambito del reddito d’impresa e quelle dettate nell’ambito del reddito di lavoro autonomo. Per quanto concerne il reddito d’impresa, gli unici collegamenti tra la normativa fiscale e quella del Codice dei beni culturali sono rinvenibili negli artt. 90 e 100 del TUIR. Il primo si riferisce ai redditi degli immobili c.d. patrimonio, ossia diversi da quelli strumentali e da quelli che formano oggetto dell’attività dell’impresa, e, dopo le modifiche introdotte dal D.L. n. 16/2012 [4], per gli immobili “vincolati” [5] prevede un regime agevolativo così articolato: se l’immobile non è locato, è disposta la tassazione su base catastale con la riduzione a metà della rendita effettiva e senza l’applicazione della maggiorazione di 1/3 (prevista per gli immobili ad uso abitativo); se l’immobile è locato, il reddito imponibile è dato dal maggiore tra il canone di locazione ridotto del 35% (anziché del 15% come previsto per gli immobili non vincolati) e il 50% del reddito medio ordinario dell’unità immobiliare[6]. Sotto quest’ultimo profilo, peraltro, va segnalato che la formulazione della norma non appare del tutto chiara, in quanto, mentre per gli immobili non vincolati la deduzione forfettaria dal canone di locazione (nella misura del 15%) riguarda l’«importo delle spese documentate sostenute ed effettivamente rimaste a carico per la realizzazione degli interventi di cui alla lett. a) del comma 1 dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 280» [7], per gli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico la deduzione è sempre rapportata forfettariamente al canone (nella misura del 35%), ma non è riferita alle spese di manutenzione. Sicché v’è il dubbio che, con riferimento agli immobili vincolati, la deduzione forfettaria competa anche in mancanza di spese di manutenzione [8] e che, pertanto, il [continua ..]
Orbene, tornando alle imprese, va detto che, al di fuori dei menzionati artt. 90 e 100 del TUIR, non vi è altra disposizione che regoli i profili fiscali della detenzione di beni culturali, nel comparto delle imposte sui redditi. Eppure non v’è dubbio che un bene culturale potrebbe contribuire al processo di produzione del reddito imponibile, vuoi come bene-merce, oggetto dell’attività dell’impresa e dunque idoneo a generare costi, ricavi e rimanenze, vuoi – ed è ciò che qui interessa – quale bene d’investimento, strumentale o non strumentale all’attività d’impresa svolta. Mi riferisco qui, in particolare, alle opere d’arte costituite da beni mobili, quali oggetti d’antiquariato, quadri, sculture, stampe, litografie, libri antichi, tappeti, ecc. Allorquando l’opera d’arte viene trattata alla stregua di un bene strumentale, si pone il problema della deducibilità delle quote di ammortamento e dei canoni di leasing. Esso nasce sia dalla norma tributaria – giacché l’art. 102 del TUIR, pur non escludendo la deducibilità di tali costi con riferimento ai beni che siano catalogabili tra le opere d’arte, presuppone che le stesse siano annoverabili nelle categorie di cui al D.M. 31 dicembre 1988 – sia dalla norma civilistica, rispetto alla quale le immobilizzazioni materiali sono soggette al processo di ammortamento esclusivamente quando l’utilizzabilità delle stesse risulta limitata nel tempo. La maggior parte delle opere d’arte, invece, costituisce una risorsa che l’impresa può impiegare in un arco temporale indefinito e che generalmente non è soggetta alla perdita di valore nel tempo. Pertanto, dal punto di vista civilistico, il costo delle opere d’arte non potrebbe essere sottoposto ad ammortamento, come peraltro confermato anche dal par. 58 dell’OIC 16, a mente del quale «tutti i cespiti sono ammortizzati tranne i cespiti la cui utilità non si esaurisce, come i terreni e le opere d’arte». Di conseguenza, tali costi non potrebbero transitare nel conto economico dell’impresa detentrice delle opere d’arte, sicché difetterebbe il requisito della previa imputazione a conto economico, richiesto dalla normativa fiscale ai fini della deducibilità dei componenti negativi. Ed anche volendo considerare [continua ..]
Alla luce di ciò, nell’ottica di recuperare una rilevanza fiscale del costo sostenuto per l’investimento, un’ipotesi di ragionamento potrebbe essere quella di qualificare gli acquisti di opere d’arte come spese di rappresentanza, ammettendone la deducibilità ai sensi dell’art. 108 del TUIR. In effetti, tali acquisti potrebbero rispondere alla funzione normalmente riconosciuta alle spese di rappresentanza, ossia l’accrescimento del prestigio e dell’immagine dell’impresa [18]. E, da questo punto di vista, sarebbe intanto soddisfatto il requisito generale dell’inerenza, inteso quale nesso di funzionalità tra il costo sostenuto e l’attività economica imprenditoriale diretta alla realizzazione dell’oggetto sociale [19]. Anche in tal caso, tuttavia, un primo ostacolo da affrontare potrebbe riguardare il versante civilistico, atteso che, da un lato, bisognerebbe qualificare come spesa di rappresentanza l’acquisto di un bene durevole, privilegiandone la funzione rispetto al profilo della consistenza materiale; dall’altro lato, si dovrebbe valutare se vi sia la possibilità di rilevare a conto economico, anziché nell’attivo dello stato patrimoniale, il costo sostenuto per l’acquisto [20], al fine di integrare il requisito della previa imputazione a conto economico di cui all’art. 109, comma 4, del TUIR. Dal punto di vista più strettamente fiscale, poi, anche nei casi in cui si ritenga possibile imputare a conto economico una spesa di rappresentanza a fronte dell’acquisto di un’opera d’arte, due sarebbero le questioni da affrontare prima di giungere al riconoscimento della deducibilità del costo, entrambe derivanti dall’art. 108 del TUIR. La prima è legata all’entità della deduzione ammessa, atteso che – come noto – l’art. 108, comma 1, fissa dei limiti alla deducibilità delle spese di rappresentanza, in rapporto al volume di ricavi e proventi della gestione caratteristica realizzato dall’impresa [21]. La seconda questione, ben più complessa dal punto di vista giuridico, riguarda la nozione di “spesa di rappresentanza” ed il riferimento ai requisiti di inerenza stabiliti dal decreto ministeriale cui l’art. 108 rinvia. Ebbene, il problema interpretativo nasce dal fatto che il D.M. 19 novembre [continua ..]