Con la sentenza 27 settembre 2022, n. 28062, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’annosa questione (interessata, nel corso del 2017, da rilevanti modifiche legislative) del rimborso dell’IVA erroneamente applicata. La pronuncia, riguardante un caso di applicazione dell’imposta in mancanza del presupposto di territorialità, affronta il tema da due prospettive differenti: la prima relativa al rapporto tra la richiesta di rimborso e l’emissione da parte del cedente/prestatore di note di variazione in diminuzione; la seconda riguardante il termine entro il quale avanzare la richiesta di rimborso. Le conclusioni cui è giunta la Suprema Corte, pur non distanziandosi da quelle precedentemente espresse in giurisprudenza, suscitano una riflessione sulla possibilità di porre rimedio all’errata applicazione dell’IVA mediante l’emissione di note di variazione in diminuzione ex art. 26, comma 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione alla quale pare che la giurisprudenza non sia ancora pervenuta ad un approdo ampiamente condiviso.
With judgment 27 September 2022, no. 28062, the Court of Cassation dealt again with the refund of incorrectly applied VAT (a theme which has been affected, during 2017, by significant legislative changes). The ruling (concerning the application of VAT in the absence of the assumption of territoriality) addresses the issue from two different perspectives: the first on the relationship between the refund request and the issue by the supplier of credit notes; the second about the deadline within which to submit the refund request. The conclusions reached by the Supreme Court, even if quite similar to those previously expressed in jurisprudence, prompt a reflection on the possibility of remedying the incorrect application of VAT by issuing credit notes.
1. I fatti di causa - 2. Il rimborso dell’IVA ai sensi dell’art. 38 bis2, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 - 3. Il rimborso dell’IVA ai sensi dell’art. 30 ter, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 - 4. Indebito IVA e note di variazione in diminuzione - 5. Le conclusioni della Suprema Corte - NOTE
La sentenza 27 settembre 2022, n. 28062, riguarda una controversia intercorsa tra una società estera, con partita IVA italiana, e l’Amministrazione Finanziaria, avente ad oggetto il rimborso dell’IVA versata dalla società estera ed addebitata ad una società tedesca, con rappresentante fiscale in Italia, sul presupposto, rilevatosi successivamente errato, che la cessione di beni riguardasse beni allocati nel territorio italiano. La società estera, appurato che la cessione non dovesse considerarsi effettuata nel territorio italiano (e che pertanto, ai sensi dell’art. 7 bis del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, essa non fosse assoggettabile ad IVA in Italia) chiedeva il rimborso dell’IVA erroneamente versata, in ragione del difetto del presupposto di territorialità dell’operazione. La richiesta di rimborso rimaneva priva di riscontro, e la società estera ricorreva al giudice tributario avverso il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria. La pronuncia in commento interessa diversi temi riguardanti il rimborso dell’IVA [1], ed in particolare: - la disciplina di cui all’art. 38 bis2, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di rimborso dell’IVA assolta in Italia da parte di soggetti passivi stabili in altri Stati europei; - la disciplina prevista dall’art. 30 ter, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (e dagli artt. 19 e 21 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546), in tema di rimborso IVA da indebito; - il rapporto tra il rimborso dell’IVA da indebito e le note di variazione in diminuzione previste dall’art. 26, comma 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (in relazione al quale la giurisprudenza non sembra essere ancora giunta ad un approdo condiviso) [2].
Come noto, ai sensi dell’art. 17, comma 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nel caso in cui gli obblighi o i diritti derivanti dall’applicazione delle norme in materia di imposta sul valore aggiunto siano previsti a carico, o a favore, di soggetti non residenti e senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato, i medesimi sono adempiuti od esercitati, nei modi ordinari, dagli stessi soggetti direttamente, se identificati ai sensi dell’art. 35 ter, o tramite un loro rappresentante residente nel territorio dello Stato. L’art. 35 ter prevede che i soggetti non residenti nel territorio dello Stato che esercitano attività di impresa, arte o professione in altro Stato membro dell’Unione europea [3] che intendono assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti in materia di imposta sul valore aggiunto direttamente (e non attraverso rappresentante fiscale o stabile organizzazione ai fini IVA), possano presentare apposita dichiarazione all’Amministrazione finanziaria, chiedendo l’attribuzione di un numero di partita IVA italiana. I soggetti passivi non residenti identificati ai fini IVA ai sensi dell’art. 35 ter operano in Italia al pari dei soggetti passivi residenti. Nel caso effettuino operazioni attive, essi dovranno emettere fattura, registrarla e versare all’erario l’imposta addebitata al cessionario/committente in via di rivalsa; mentre, nel caso effettuino operazioni passive, e versino pertanto ai relativi cedenti/prestatori l’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa, essi, a seconda dei casi, potranno alternativamente: - detrarre l’IVA italiana pagata, compensandola con l’IVA a debito derivante da operazioni attive effettuate in Italia; - chiedere il rimborso dell’imposta pagata in Italia, qualora non effettuino operazioni attive rilevanti ai fini IVA in Italia. È evidente che, nel caso in cui un soggetto non residente non abbia compiuto operazioni attive ai fini IVA in Italia, in assenza della facoltà di esercitare il diritto di detrazione, il rimborso rappresenti l’unica soluzione possibile al fine di garantire il rispetto del principio di neutralità [4] (non potendo il soggetto estero provvedere a detrarre l’IVA a credito italiana con quella a debito di un altro Stato). Questa la ratio dell’art. 38 bis2, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, il quale prevede che i soggetti stabiliti in altri Stati membri [continua ..]
Ai sensi dell’art. 30 ter, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 [7], «il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data del versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione. Nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa [8]. La restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale» [9]. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza sia nazionale, sia comunitaria, l’IVA erroneamente applicata non può essere detratta [10]. Diversa è (quantomeno in parte) la questione relativa all’IVA erroneamente fatturata con aliquota più elevata di quella che avrebbe dovuto essere applicata, a cui si applica, oltre all’art. 30 ter, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, anche l’art. 6, comma 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, che, pur prevedendo l’applicazione di una sanzione da € 250,00 ad € 10.000,00 a carico del cessionario/committente, permette allo stesso di detrarre l’IVA erroneamente addebitatagli a titolo di rivalsa dal cedente/prestatore [11]. La Corte di Cassazione ritiene che l’art. 6, comma 6, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (così come modificato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205) non si applichi ai casi in cui l’imposta sia stata indebitamente applicata in relazione ad operazioni non imponibili, esenti o non soggette ad IVA [12]. Qualora l’imposta sia erroneamente applicata in relazione ad un’operazione non rilevante ai fini IVA, alla luce dell’orientamento della Suprema Corte, l’IVA indebita non potrà dunque essere oggetto di detrazione. Ciò posto, occorre interrogarsi in merito alle modalità con le quali le parti possano porre rimedio alla situazione creatasi in seguito all’erronea applicazione dell’imposta. Secondo l’orientamento della Corte di Cassazione [13], in [continua ..]
Alternativa rispetto alla richiesta di rimborso ex art. 30 ter, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, pare essere l’emissione di note di variazione in diminuzione [18]. In base all’art. 26, comma 3, del medesimo D.P.R., il cedente/prestatore ha diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola ai sensi dell’art. 25, entro un anno dall’effettuazione dell’operazione, qualora sia necessario rettificare inesattezze della fatturazione che abbiano dato luogo all’applicazione dell’art. 21, comma 7 (ai sensi del quale, «se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura»). Attraverso lo strumento delle note di variazione (nello specifico, in diminuzione) sarebbe pertanto possibile raggiungere il medesimo risultato cui si perverrebbe attraverso l’istanza di rimborso. Non a caso, in dottrina si è parlato, con riferimento all’ipotesi in esame, di «auto-rimborso» [19], ritenendo applicabile l’art. 26, quale «meccanismo di riequilibrio» [20], anche qualora ricorra un’ipotesi di indebito [21]. L’emissione di una nota di variazione in diminuzione da parte del cedente/prestatore, da un lato, permetterebbe allo stesso di recuperare (attraverso lo strumento della detrazione) l’IVA indebitamente versata all’erario, e dall’altro, consentirebbe al cessionario/committente, registrando il documento rettificativo (in diminuzione, sul registro degli acquisiti, o in aumento, sul registro delle operazioni attive), di diminuire in misura corrispondente l’importo detraibile. In tal modo, verrebbe conservato l’equilibrio economico tra rivalsa e detrazione, e rispettato l’interesse erariale [22]. A ben vedere, l’erario non subirebbe alcun danno nemmeno nel caso in cui, in seguito all’errata fatturazione, il cessionario/committente avesse già provveduto a detrarre l’IVA indebitamente addebitatagli dal cedente/prestatore, in quanto la registrazione della nota di variazione in diminuzione emessa dal cedente/prestatore comporterebbe il sorgere di un debito IVA in capo al [continua ..]
Venendo più nel dettaglio a quanto affermato nella pronuncia in esame, occorre, per prima cosa, premettere che (benché richiamato nella sentenza) non sembra che al caso in questione possa essere applicato l’art. 38 bis2, dovendosi invece ritenere applicabile rationae temporis l’art. 21, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in tema di rimborso da indebito IVA. Ciò posto, due sono i passaggi della sentenza che meritano di essere brevemente analizzati. Il primo riguarda la possibilità per il cedente/prestatore, avvedutosi dell’errore di fatturazione, di emettere una nota di variazione in diminuzione al fine di poter detrarre l’IVA indebitamente versata all’erario (nota di variazione che tuttavia nel caso in esame non era stata emessa dalla società estera, la quale aveva unicamente chiesto a rimborso quanto indebitamente versato all’erario italiano). La Suprema Corte, da un lato, ritiene che la fattispecie oggetto della controversia non rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 26 poiché la vicenda afferisce non ad ipotesi di variazione in diminuzione, ma di richiesta di rimborso IVA per insussistenza del presupposto impositivo della territorialità dell’operazione, dall’altro, afferma che, nell’ipotesi di cui all’art. 26, comma 3, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, non troverebbe applicazione, il diritto del cedente o del prestatore di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola ai sensi del precedente art. 25. Relativamente alla prima affermazione, è certamente corretto distinguere l’istituto delle note di variazione, previsto dall’art. 26, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, da quello del rimborso dell’IVA indebitamente versata, ora regolato dall’art. 30 ter del medesimo D.P.R. Pare inoltre condivisibile quanto statuito dalla Corte di Cassazione, nella misura in cui ciò – contrariamente a quanto affermato dall’Amministrazione finanziaria, e conformemente a quanto deciso in precedenti pronunce giurisprudenziali – comporti l’irrilevanza dell’emissione di note di variazione in diminuzione ai fini della richiesta di rimborso ex art. 30 ter (o, prima della L. 20 novembre 2017, n. 167, ex art. 21, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). Tale conclusione pare, infatti, coerente con il fatto che (come si evince dal [continua ..]