Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2280-1332 / EISSN 2421-6801
G. Giappichelli Editore

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Sul diritto del contribuente al silenzio e a non cooperare alla propria incolpazione. Dal giusto processo al giusto procedimento? (di Simone Francesco Cociani)


L’Autore, muovendo dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 84 del 2021, riconosce la rilevanza del diritto al silenzio anche in ambito tributario. Da ciò discende il diritto del contribuente a non cooperare alla propria incolpazione fin dall’istruttoria amministrativa.

 

On the taxpayer’s right to remain in silence and to not cooperate in his own indictment. from the due process to the fair proceeding?

The Author, moving from the Costitutional Court case’s n. 84/2021, recognizes the right to remain in silence also in the tax field. From this derives the taxpayer’s right to not cooperate in his own indictment even from the administrative investigation.

Keywords: Tax penalties, ius tacendi, right of defense, due process, fair proceeding.

MASSIMA (non ufficiale): L’obbligo di sanzionare anche chi si sia rifiutato di rispondere alle domande della Banca d’Italia e della CONSOB nell’esercizio del proprio diritto al silenzio è costituzionalmente illegittimo. PROVVEDIMENTO: REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO HA PRONUNCIATO LA SEGUENTE SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), come introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra D. B. e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), con ordinanza del 16 febbraio 2018, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2018. Visti l’atto di costituzione di D. B., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 13 aprile 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò; uditi gli avvocati Antonio Saitta e Renzo Ristuccia per D. B. e l’avvocato dello Stato Pio Giovanni Marrone per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 13 aprile 2021. RITENUTO IN FATTO 1. – Con ordinanza del 16 febbraio 2018, la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato – accanto alle questioni di legittimità costituzionale già definite da questa Corte con la sentenza n. 112 del 2019 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), «nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare [continua..]

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SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La prospettiva domestica. Ovvero la rilevanza dell’illecito amministrativo sotto il profilo dell’applicazione delle garanzie relative al diritto di difesa, come pure in relazione al principio del giusto processo sotto il particolare profilo della c.d. “parità delle armi” - 3. La prospettiva internazionale e quella comunitaria. Ovvero sulla sussistenza dello ius tacendi quale elemento centrale della nozione di equo processo - 3.1. Segue. Sulla sussistenza del diritto al silenzio anche in presenza di una lesione di un bene o di un interesse pubblico (tutelato dal diritto comunitario) - 3.2. Segue. Sul carattere assoluto del diritto al silenzio - 4. Sull’estensione dello ius tacendi ai procedimenti amministrativi (tributari) - 5. Sulle possibili ricadute, in ambito tributario, del riconoscimento del diritto al silenzio nei procedimenti amministrativi - 5.1. Segue. La dimensione interna - 5.2. Segue. La dimensione esterna - 5.2.1. Segue. Il profilo soggettivo - 6. Dal giusto processo al giusto procedimento? - 7. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

La recente sentenza della Corte costituzionale 30 aprile 2021, n. 84, con cui la Consulta ha, principalmente, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) – nella parte in cui esso si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato – riveste indubbio interesse anche nell’ambito tributario [1]. Difatti, il diritto al silenzio, da ultimo riconosciuto dal Giudice delle leggi nell’am­bito dei procedimenti amministrativi sostanzialmente “punitivi”– come peraltro già avevano fatto sia la Corte EDU che la Corte di Giustizia (su cui infra) –, sembra ora ritenersi sussistente anche con riferimento a quei procedimenti amministrativi, pure di tipo tributario, siano essi o meno preordinati all’affermazione della responsabilità penale del privato, purché prevedano l’applicazione di sanzioni, anche solo di tipo «sostanzialmente penale» [2]. Al riguardo, è possibile premettere che, se pure il diritto al silenzio risulta previsto in materia penale [3], esso, viceversa, non risulta formalmente codificato nel diritto amministrativo né, per quanto in queste sede interessa, nel diritto tributario; ciò nondimeno, la Corte costituzionale risulta aver condiviso quell’impostazione secondo cui lo ius tacendi può essere considerato alla stregua di una norma internazionale generalmente riconosciuta che, peraltro, si pone «al cuore della nozione di equo processo» [4]. E difatti, come ricostruito dalla giurisprudenza delle Corti europee [5] e, più recentemente, dalla nostra Corte costituzionale [6], tale diritto al silenzio, espressione del principio secondo cui nemo tenetur se ipsum accusare, costituisce il corollario del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost. (cui si aggiunge la presunzione di non colpevolezza affermata all’art. 27, comma 2, Cost. [7]) [8], nonché dall’art. 6 del Trattato EDU, come pure dall’art. 47 (e dall’art. 48) della CDFUE, e, pertanto, acquista consistenza nei casi in cui il [continua ..]


2. La prospettiva domestica. Ovvero la rilevanza dell’illecito amministrativo sotto il profilo dell’applicazione delle garanzie relative al diritto di difesa, come pure in relazione al principio del giusto processo sotto il particolare profilo della c.d. “parità delle armi”

La Consulta, nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione sollevata dalla Corte di cassazione con ordinanza in data 16 febbraio 2018, risulta anzitutto condividere l’impostazione del giudice rimettente laddove esso rileva che l’accer­tamento di un illecito amministrativo ben può essere prodromico alla possibile irrogazione sia di sanzioni propriamente penali, sia di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente puniva (rectius: “sostanzialmente penale”). Pertanto, il soggetto cui l’autorità (nel caso di specie la CONSOB) intenda addebitare la responsabilità di un simile illecito amministrativo, tale cioè da prevedere l’applicazione di sanzioni (siano esse propriamente, ovvero anche sostanzialmente) penali, deve potersi giovare di tutte le garanzie costituzionali relative al diritto di difesa nei procedimenti penali, tra cui – per quanto in questa sede interessa – il diritto a non collaborare alla propria incolpazione [14]. Opinare diversamente significherebbe, non solo violare l’art. 24 Cost., ma, anche, l’art. 111 Cost. Difatti, sotto quest’ultimo profilo, laddove – come nel caso di specie – il privato sia destinatario di un dovere di collaborazione nei confronti dell’autorità (amministrativa) cui spetta anche il potere di sanzionare l’amministrato medesimo, ciò non risulterebbe compatibile con la posizione di parità che privato e autorità debbono poi occupare nella (eventuale) fase giurisdizionale relativa all’impugna­zione del successivo provvedimento sanzionatorio che, appunto, risulterebbe essere stato irrogato proprio in ragione degli elementi forniti dall’amministrato in attuazione del dovere di collaborazione a quest’ultimo imposto.


3. La prospettiva internazionale e quella comunitaria. Ovvero sulla sussistenza dello ius tacendi quale elemento centrale della nozione di equo processo

Ancora, la rilevata non manifesta infondatezza della questione risulta dalla Consulta spiegata con riferimento al parametro di cui all’art. 117, comma 1, Cost., a sua volta facendo leva – così come aveva fatto il remittente – sull’art. 6 del Trattato EDU che, come noto, ha dato luogo ad una consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, dal canto suo, afferma il diritto di chiunque a non cooperare alla propria incolpazione e, quindi, a rimanere in silenzio, anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni aventi natura punitiva [15]. Pertanto, come afferma sul punto il Giudice delle leggi, tale ius tacendi finisce per porsi «al cuore della nozione di processo equo» [16]. Analoghe considerazioni risultano altresì richiamate con riferimento all’art. 14, paragrafo 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), ove risulta esplicitamente riconosciuto il diritto di ogni individuo accusato di un reato a «non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole», e ciò – per ragioni analoghe a quelle viste sopra – vale anche nel contesto di un’indagine condotta da un’autorità amministrativa, purché potenzialmente funzionale all’irrogazione di sanzioni lato sensu punitive. Da ultimo, la Corte dà atto di come il remittente sospetta la violazione, oltre che dell’art. 117, comma 1, Cost., anche dell’art. 11 Cost., in relazione all’art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE). Difatti, ritenuta ricadere la norma censurata nell’ambito di applicazione del diritto comunitario, a mente dell’art. 51 della stessa Carta, nella misura in cui il disposto recato dall’art. 47, paragrafo 2, citato possa dirsi sostanzialmente sovrapponibile a quello di cui all’art. 6, paragrafo 1, del Trattato EDU, allora il primo deve essere necessariamente interpretato – a mente dell’art. 52, paragrafo 3, della CDFUE – conformemente all’interpretazione resa dalla Corte EDU rispetto all’art. 6 di cui sopra [17]. Ma v’è di più, la stessa Corte costituzionale dà conto di come il giudice a quo abbia altresì rilevato che – pur in presenza di un generale obbligo di collaborazione con [continua ..]


3.1. Segue. Sulla sussistenza del diritto al silenzio anche in presenza di una lesione di un bene o di un interesse pubblico (tutelato dal diritto comunitario)

È ora interessante annotare come la difesa della parte pubblica, nel merito, fra le varie eccezioni, abbia eccepito l’insussistenza della violazione del diritto di difesa in tutte le ipotesi in cui si realizzi una lesione di un bene, ovvero di un interesse pubblico (nel caso di specie consistente nell’«interesse all’efficiente e trasparente funzionamento del mercato pubblico»), per come tutelato da apposite norme sanzionatorie, la cui applicazione ha appunto dato luogo al giudizio a quo. Ancora, sotto quest’ultimo aspetto, è del pari interessante annotare come – sempre secondo la parte pubblica – sia proprio il diritto comunitario secondario a considerare la necessità di prevedere sanzioni, sufficientemente dissuasive e proporzionate alla gravità delle violazioni dei divieti e obblighi fissati con la Direttiva comunitaria 2003/6/CE, con esplicita previsione di poteri, in capo all’autorità di vigilanza, a fini di indagine, tra cui è ricompreso il diritto di chiedere informazioni e di convocare in audizione qualsiasi persona, ivi compreso, dunque, il soggetto cui si contesti l’illecito (abuso di informazioni privilegiate). Sul punto specifico, tuttavia, è appena il caso di osservare che – come pure rilevato dalla parte privata – il diritto a non contribuire alla propria incolpazione giammai potrebbe ritenersi recessivo rispetto all’interesse pubblico all’efficiente funzionamento del mercato, stante l’intangibilità del diritto di difesa [19]. Ancora, è da rilevare la circostanza che il diritto comunitario secondario – ancorché preveda i rilevanti poteri d’indagine di cui sopra – deve comunque rispettare i diritti fondamentali previsti nella CDFUE (cfr. artt. 47 e 48), così come interpretati anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in riferimento all’art. 6 del relativo Trattato, nonché delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Tanto è vero che la Corte di Giustizia – chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale [20] a seguito dell’ordinanza n. 117/2019 della Consulta [21] – con la richiamata sentenza 2 febbraio 2021, ha avuto modo di statuire che le disposizioni della Direttiva censurate, così come lette alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, devono essere interpretate nel senso che esse [continua ..]


3.2. Segue. Sul carattere assoluto del diritto al silenzio

Dalla lettura della sentenza in questa sede annotata è quindi interessante notare come la dialettica processuale abbia consentito di far emergere il carattere assoluto dello ius tacendi [23]. Al riguardo, da un lato, la parte pubblica – all’esito della sentenza resa in via interpretativa dalla Corte di Giustizia in data 2 febbraio 2021 – eccepiva che il diritto al silenzio non può giustificare qualsiasi condotta di omessa collaborazione con le autorità competenti, quale, ad esempio, il rifiuto di presentarsi a un’audizione o il porre in essere comportamenti dilatori tendenti a rinviare lo svolgimento della stessa. Pertanto, secondo tale impostazione, il diritto a non cooperare alla propria incolpazione avrebbe carattere “relativo”, nel senso che esso assumerebbe rilievo solo nella misura in cui le dichiarazioni rese dall’incolpato su questioni di fatto abbiano influito sulla motivazione della decisione adottata o sulla sanzione inflitta all’esito del procedimento (c.d. “tesi dell’effetto utile”). Per cui, nei procedimenti innanzi all’au­torità amministrativa (CONSOB), la garanzia del diritto al silenzio non dovrebbe essere letta nel senso di rimettere all’arbitrio individuale di pochi soggetti qualificati (che dispongono di tutte le informazioni rilevanti per qualificare come lecite o illecite le singole operazioni), la decisione se collaborare o meno. Ove invece così fosse, alla luce dell’asimmetria informativa che caratterizza il rapporto di cui è causa, si priverebbero di ogni effetto utile le funzioni di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa, la quale non disporrebbe, al fine dell’accer­tamento di illeciti, di poteri autonomamente esercitabili di accesso, perquisizione e sequestro o di intercettazione di comunicazioni. Talché, sempre secondo la parte pubblica, occorrerebbe differire l’operatività della garanzia ad un momento successivo al completamento delle indagini [24], ovvero al momento in cui si potrà realmente valutare se le dichiarazioni doverosamente rese dall’incolpato siano utilizzabili al fine di accertare a suo carico una violazione sanzionata. E pertanto una tale garanzia non dovrebbe applicarsi fino al momento in cui l’autorità procede alla trasmissione al pubblico ministero della documentazione raccolta nel corso [continua ..]


4. Sull’estensione dello ius tacendi ai procedimenti amministrativi (tributari)

Tanto chiarito, va ora sottolineato che mai, prima della sentenza in questa sede annotata, la Corte costituzionale aveva affermato che lo ius tacendi in materia penale, come accennato appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana che caratterizzano l’identità costituzionale italiana [29], potesse essere esteso anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura punitiva secondo i “criteri Engel”, ancorché, in più d’una occasione, essa avesse ritenuto che singole garanzie riconosciute nella materia penale dalla CEDU e dalla stessa Costituzione italiana si estendessero anche a tale tipologia di sanzioni [30]. E poiché, ormai, sulla natura punitiva delle principali sanzioni amministrative tributarie (specie laddove queste siano correlate all’ammontare dell’imposta c.d. “evasa”), in ragione appunto della loro particolare afflittività, non vi dovrebbero essere più dubbi alla stregua sia della giurisprudenza costituzionale [31], sia di quella eurounitaria [32] (che si sono occupate del tema, ad esempio, dalla prospettiva del ne bis in idem), ben si comprende la rilevanza della pronuncia in questa sede annotata anche con riferimento al diritto tributario, quanto meno in tutti quei casi (e sono molti) in cui il diritto al silenzio si colloca in un contesto – processuale, ovvero procedimentale – orientato convalidare, ovvero anche solo ad agevolare, l’attività accertativa dell’a.f. rispetto ad una violazione che sia già stata commessa e per la quale il relativo procedimento di controllo sul contribuente sia già avviato [33]. E ciò ancorché in passato lo stesso Giudice delle leggi abbia escluso l’incostituzionalità di una disposizione che, in materia tributaria, prevede una sanzione pecuniaria a carico di chi, sottoposto ad accertamenti da parte degli enti impositori, non avesse in precedenza ottemperato agli inviti a comparire da parte degli stessi enti [34]. In ogni caso, la conclusione da ultimo raggiunta dalla Consulta, con la sentenza ora in esame, risulta pienamente conforme all’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU che, dal canto suo, ha da tempo espressamente esteso il diritto al silenzio desumibile dall’art. 6 del relativo Trattato – sub specie di diritto a non [continua ..]


5. Sulle possibili ricadute, in ambito tributario, del riconoscimento del diritto al silenzio nei procedimenti amministrativi

Preso atto che, finalmente, la Corte costituzionale ha affermato l’applicazione della garanzia espressa dal brocardo “nemo tenetur se detegere” anche in ambito amministrativistico (purché in presenza dell’applicazione di sanzioni almeno sostanzialmente penali), non resta che accennare alle possibili ricadute dell’affermazione di questo principio nel diritto tributario e, in particolare, nella fase dell’istruttoria amministrativa [47]. A ben vedere, sembra che tali ricadute muovano in una duplice direzione: interna, nel senso di afferente lo stesso “procedimento” [48] nel quale il principio viene direttamente in rilievo, ed esterna, concernente l’utilizzabilità degli elementi istruttori acquisiti nell’ambito di un successivo e/o diverso “procedimento” relativo ai medesimi fatti, ovvero relativo a fatti comunque connessi con quelli di cui alla dimensione interna che precede [49]. In altre parole, l’estensione alla materia tributaria delle garanzie affermate dal Trattato EDU, quanto meno in tutti quei casi in cui le relative questioni abbiano ad oggetto l’applicazione di sanzioni (almeno sostanzialmente) penali, tali da qualificarsi secondo l’ormai nota ricostruzione della Corte di Strasburgo [50], porta a riflettere sull’applicazione delle medesime garanzie non solo all’interno dello stesso “procedimento” nel quale il contribuente si sia avvalso dello ius tacendi (tipicamente nel contesto dell’esercizio dei poteri istruttori da parte dell’amministrazione finanziaria) e, dunque, in relazione alle sanzioni eventualmente irrogate a fronte del silenzio dal privato opposto a seguito di violazioni dallo stesso poste in essere, ma, anche, in relazione ad altro e diverso “procedimento” (tipicamente nel contesto del procedimento amministrativo d’imposizione vero e proprio), purché questo sia indirizzato al recupero di un’imposta la cui (contestata) evasione sia stata dall’ufficio dimostrata (o anche solo sospettata) sulla base di prove (o, più in generale, riscontri) acquisite(i) nella fase istruttoria nella quale il diritto di tacere sia stato conculcato, sempreché assieme all’imposta di cui si discute (così come accertata in relazione a fatti connessi o collegati al procedimento istruttorio de quo) siano state irrogate sanzioni che, [continua ..]


5.1. Segue. La dimensione interna

Dunque, con riferimento alla dimensione “interna”, è possibile procedere alla ricognizione di quelle disposizioni tributarie che attribuiscono all’amministrazione finanziaria determinati poteri istruttori – e che quindi affermano le speculari posizioni soggettive passive in capo al contribuente (onerato di rispondere al fisco) –, per verificare se dette disposizioni, laddove sanzionano la mancata collaborazione del contribuente, possano considerarsi in contrasto con il principio secondo cui nemo tenetur se detegere, così come ricostruito dalla giurisprudenza sopra richiamata. Al riguardo, viene alla mente l’art. 9 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, laddove esso prevede l’irrogazione di una sanzione amministrativa da € 1.000,00 ad € 8.000,00 (peraltro suscettibile di essere raddoppiata in caso di accertamento di evasione d’imposta superiore ad € 50.000,00) in capo a chi, a mente del secondo comma dello stesso art. 9, nel corso degli accessi eseguiti ai fini dell’accertamento in materia di imposte sui redditi e IVA, rifiuta di esibire o dichiara di non possedere, o comunque sottrae all’ispezione e alla verifica, i documenti, i registri e le scritture contabili, anche non obbligatori, dei quali risulti con certezza l’esistenza [52]. Analoga menzione va riservata all’art. 11, comma 1, lett. a), b) e c), del medesimo D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, laddove esso prevede l’irrogazione di una sanzione amministrativa da € 250,00 ad € 2.000,00 in capo a chi, rispettivamente, omette di rendere ogni comunicazione prescritta dalla legge tributaria, anche se non richiesta dagli uffici o dalla Guardia di finanza al contribuente o a terzi nell’esercizio dei poteri di verifica, ovvero invia tali comunicazioni con dati incompleti o non veritieri o, ancora, omette di restituire i questionari inviati al contribuente o provvede alla loro restituzione con risposte incomplete o non veritiere o, infine, non ottempera all’invito a comparire come pure a qualsiasi altra richiesta fatta dagli uffici o dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri loro conferiti. Ancora, può indicarsi l’art. 37, comma 29, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni in Legge 4 agosto 2006, n. 248, laddove esso prevede che sono punite con la sanzione amministrativa pecuniaria da € 258,00 a € 2.065,00 la mancata [continua ..]


5.2. Segue. La dimensione esterna

Quanto alla dimensione c.d. “esterna” sopra accennata, analoghi effetti coercitivi della volontà del contribuente sembrano potersi occasionare alla luce delle disposizioni di cui agli artt. 32, comma 1, nn. 2), 3) e 4), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui l’ufficio tributario ha il potere, rispettivamente, di invitare il contribuente a comparire davanti a sé per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’ac­certamento nei suoi confronti, ovvero di invitare il contribuente a esibire o trasmettere atti e documenti rilevanti ai fini dell’accertamento nei suoi confronti, come pure di inviare al contribuente questionari al fine di reperire dati e notizie, di carattere specifico, rilevanti ai fini dell’accertamento nei confronti dello stesso. Come noto, così come previsto dal medesimo art. 32, le notizie e i dati non addotti, come pure gli atti, i documenti e le scritture non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio, non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, purché essi siano stati puntualmente richiesti e purché al relativo obbligo di collaborazione il contribuente si sia dolosamente sottratto [60]. Tale preclusione ha tuttavia valenza solamente procedimentale perché – come chiarito dall’ultimo comma dell’art. 32 in parola – in sede processuale il contribuente può comunque depositare in allegato al ricorso le notizie, i dati, i documenti e le scritture de quibus, contestualmente dichiarando di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa allo stesso non imputabile [61]. Per completezza, si dà conto che analoghe previsioni risultano contenute nell’art. 51 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – che, peraltro, rinvia espressamente alle disposizioni in tema di inottemperanza agli inviti di cui all’art. 32 sopra richiamato –, come pure nell’art. 52, quinto comma, del medesimo D.P.R. n. 633/72, laddove si prevede l’inutilizzabilità delle scritture e dei documenti di cui sia stata rifiutata l’esibizione. Ebbene, anche tralasciando la questione della natura giuridica (in ipotesi sanzionatoria) delle richiamate disposizioni [62], nel qual caso si potrebbe al limite concludere come sopra esposto in relazione alle norme [continua ..]


5.2.1. Segue. Il profilo soggettivo

Ancora, sotto il profilo soggettivo, è possibile accennare che, sebbene il caso oggetto della decisione in esame si riferisca all’irrogazione di una sanzione amministrativa nei confronti di una persona fisica, potrebbe altresì esplorarsi la possibilità di estendere la portata applicativa della relativa garanzia anche alle persone giuridiche. Difatti, va senz’altro osservato che, in materia tributaria, a seguito di illecito amministrativo tributario posto in essere da un ente personificato, ancorché ben possa essere sanzionata, in sede penale, la persona fisica che in nome dell’ente abbia agito (tipicamente il legale rappresentante), di norma l’ente rimane esposto alle sanzioni amministrative tributarie che – in quanto commisurate all’imposta (supposta) evasa – non di rado, per la loro concreta afflittività, sono suscettibili di essere qualificate come «sostanzialmente penali». A tale riguardo, la stessa sanzione amministrativa tributaria, ove applicata, come di regola avviene, in capo all’ente stesso, ben potrebbe costituire conseguenza dell’accer­tamento di un illecito (anche solo amministrativo), disvelato per effetto dell’obbligo di collaborazione imposto al contribuente da una delle norme fiscali sopra ricordate. Pertanto, le norme che, in sede di attuazione amministrativa del tributo dovessero costituire una coercizione della volontà dell’ente, con conseguenti riflessi in tema di sanzionabilità del legale rappresentante, anche in sede penale, ovvero di sanzionabilità dell’ente medesimo, sia in sede amministrativa che in sede penale, probabilmente si pongono in contrasto con lo ius tacendi. In ogni caso, anche tralasciando la questione dell’alterità soggettiva (ente e rappresentante) insita nell’ipotesi di sanzionabilità in sede penale della persona fisica che, quale rappresentante legale dell’ente, abbia realizzato un determinato illecito tributario (tipicamente un’evasione c.d. “sopra soglia”), non pare revocabile in dubbio che la recente estensione del catalogo dei reati presupposto di responsabilità penale di tipo amministrativo, ex D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a quelli tributari [74], valga a porre la questione dell’applicazione del principio in discorso alle persone giuridiche in termini ben più che meramente ipotetici, [continua ..]


6. Dal giusto processo al giusto procedimento?

In termini ancor più generali, la sentenza in commento offre ulteriori spunti di riflessione. Anzitutto, va salutato con favore il felice dialogo tra le Corti (Costituzionale, di Giustizia e, se si vuole, anche EDU) [76]. Ciascuna di esse, come pare nelle vicende de quibus animata da uno spirito di leale collaborazione (all’opposto del “gioco delle tre Corti” talvolta dalle stesse praticato [77]), è sembrata orientata alla progressiva affermazione di un sempre più elevato grado di protezione del privato, così da concorrere, attraverso la definizione di livelli comuni di tutela dei diritti fondamentali [78], a meglio tracciare il c.d. “volto costituzionale, convenzionale e comunitario” dello ius puniendi con riferimento agli illeciti di natura sostanzialmente penale [79]. Risultato, questo, certamente favorito dalla definizione autonoma e allargata di «pena», di cui all’art. 7 del Trattato EDU, per parte sua – attraverso l’estensione dell’area della matière pénale – capace di uniformare (verso l’alto) le varie garanzie fondamentali [80]. Peraltro, coerentemente con tale approccio sostanziale, una simile protezione delle garanzie fondamentali, per potersi dire effettiva, deve poter essere esercitata in qualsivoglia procedimento, a prescindere dalla sua qualificazione come formalmente «penale», ovvero (anche solo) «sostanzialmente penale» [81]. Difatti, la stessa Consulta [82] considera consolidato il principio – affermato dalla Corte di Strasburgo – secondo cui la «pena» può essere applicata anche da un’au­torità amministrativa, sia pure alla condizione che sia riconosciuta la facoltà di impugnare la relativa decisione innanzi ad un tribunale che offra le garanzie di cui all’art. 6 del Trattato EDU, ancorché esso non eserciti necessariamente la giurisdizione penale [83]. Tanto è vero che la «pena» può conseguire alla definizione di un procedimento amministrativo pur in assenza di un una dichiarazione formale di colpevolezza da parte della giurisdizione penale [84]. Insomma, secondo la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale [85] (che, seppure resa in tema di confisca, sembra trovare continuità nella pronuncia in esame), l’accertamento della [continua ..]


7. Conclusioni

Conclusivamente, volendo ulteriormente allargare le considerazioni intorno alle possibili conseguenze della pronuncia in questa sede annotata anche alla dimensione sostanziale, ovvero del tributo cui la sanzione di cui si controverte è commisurata, sembra di potersi ritenere che, sebbene il dovere di concorrere alle spese pubbliche trovi la sua massima espressione a livello costituzionale nell’interesse fiscale di cui all’art. 53 Cost., e sebbene – come osservato – il diritto al silenzio costituisca espressione del diritto di difesa parimenti affermato a livello costituzionale nell’art. 24 Cost., i due richiamati principi non sembrano trovarsi necessariamente in contrasto fra loro se si considera che il diritto di difesa – specialmente nella sua manifestazione in sede processuale, laddove si controverta sull’applicazione di sanzioni (almeno sostanzialmente) «penali» – non può che essere (indirettamente) funzionale ad accertare la giusta imposta [110]. E, come noto, l’acquisizione della giusta imposta secondo capacità contributiva non è patrimonio esclusivo della sola dimensione sostanziale del rapporto tributario, essa, invero, non può che risultare verificata (seppur con differente intensità) anche nella dimensione procedimentale, come pure in quella processuale [111]. Pertanto, nella concreta dinamica dell’attuazione dell’imposta – secondo il principio di legalità – (quanto meno nei casi cui la sanzione di cui si controverte è al tributo inscindibilmente collegata), occorrerà far applicazione dello ius tacendi in guisa tale da evitare che di esso si abusi da ambo le parti del rapporto, ovvero, tanto allo scopo di limitarlo al fine di ottenere la collaborazione del contribuente sotto la minaccia di conseguenze lato sensu sanzionatorie (o comunque pregiudizievoli per il contribuente come nel caso delle preclusioni in sede procedimentale) [112], quanto allo scopo di estenderlo oltre misura al fine di illecitamente consentire al privato di sottrarsi all’obbligo di contribuzione. E un simile controllo del legittimo esercizio del diritto in parola, nel caso concreto da attuarsi necessariamente in sede giurisdizionale, sembrerebbe di per sé adeguato a garantire – ai fini che qui ci occupano – l’indefettibile carattere di giustizia del processo, a sua volta garanzia di [continua ..]


NOTE