Rivista Trimestrale di Diritto TributarioISSN 2280-1332 / EISSN 2421-6801
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Considerazioni critiche sulla disciplina delle società di comodo, anche alla luce delle recenti aperture nella giurisprudenza di legittimità (di Antonio Viotto)


Il presente contributo analizza criticamente la disciplina delle c.d. società di comodo, focalizzandosi sull’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. Dopo un excursus sull’instabile quadro normativo di riferimento e sulla rigidità del meccanismo applicativo, vengono messe in risalto alcune più recenti aperture della Corte di Cassazione, per tentare di riequilibrare le parti e attenuare le criticità evidenziate. In particolare, viene dato rilievo alla “inettitudine produttiva” riconosciuta dalla Suprema Corte, tramite la quale essa permette al contribuente di dimostrare la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva. L’obiettivo finale consiste nel riconoscimento della massima estensione del diritto di difesa del contribuente a fronte di una disposizione molto discutibile la quale ribalta su di esso un onere probatorio che può rivelarsi particolarmente ostico.

Critical remarks on the discipline of shell companies, also in the light of recent developments of the supreme court's case law

This paper critically analyses the discipline of so-called shell companies, focusing on the inversion of burden of proof on taxpayer’s shoulders. After an excursus on the unstable regulatory framework and the rigidity of the application mechanism, some more recent openings made by the Supreme Court will be highlighted, in an attempt to rebalance the parties and mitigate the critical issues outlined. In particular, emphasis is given to the “productive ineptitude” recognised by the Supreme Court, through which it allows the taxpayer to demonstrate the existence of an effective entrepreneurial activity.

The final objective consists in recognising the maximum extension of the taxpayer’s right of defence in face of a highly questionable provision that reverses onto the taxpayer a burden of proof that may reveal itself particularly difficult.

SOMMARIO:

1. L’asistematico quadro normativo di riferimento - 2. Le difficoltà di individuazione della ratio e delle finalità della normativa - 3. Segue: verso una “catastizzazione” delle società di capitali? - 4. Segue: dubbi di costituzionalità anche sulla maggiorazione dell’aliquota IRES - 5. Alcuni correttivi che tuttavia non risolvono le criticità sopra evidenziate - 6. L’operatività del meccanismo impositivo: la prova dei presupposti da parte dell’Amministrazione finanziaria in caso di mancata presentazione dell’istanza di interpello - 7. Il ribaltamento dell’onere probatorio sul contribuente - 8. Le recenti aperture della Corte di Cassazione sulla prova contraria del contribuente - 9. I profili procedimentali e il loro impatto sull’onere probatorio che grava sul contribuente - 10. Considerazioni conclusive - NOTE


1. L’asistematico quadro normativo di riferimento

Obiettivo del presente lavoro è fare il punto sulle criticità che attengono alla disciplina delle c.d. società di comodo, la quale costituisce un esempio emblematico delle difficoltà del legislatore tributario di introdurre norme chiare e stabili, dirette a perseguire finalità ben individuate e rispettose dei principi costituzionali. Dopo aver esaminato le diverse prospettazioni della dottrina in merito alla natura del meccanismo impositivo ed evidenziato le difficoltà di inquadramento sistematico ed i dubbi di costituzionalità che gravano sulla normativa, il lavoro si focalizzerà su quello che costituisce il fulcro della disciplina, vale a dire l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, con l’intento di criticare l’orientamento giurisprudenziale prevalente, mettendo in luce e valorizzando alcune più recenti aperture della Corte di Cassazione, per tentare di approdare ad una ricostruzione che, facendo leva sull’amplia­mento della possibilità di prova del contribuente, consenta di riequilibrare la posizione delle parti e di attenuare, se non eliminare, le criticità in precedenza evidenziate. Il punto di partenza dell’indagine è il quadro normativo, il quale si presenta alquanto articolato e asistematico, in quanto, all’art. 30 della L. 23 dicembre 1994, n. 724 (che, come noto, reca la disciplina base del meccanismo impositivo), si aggiunge quanto disposto dall’art. 2, commi 36 decies-36 duodecies, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, in tema di società in perdita sistematica (tuttavia abrogato dall’art. 9, comma 1, del D.L. 21 giugno 2022, n. 73, a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2022), e a questi si sovrappone, poi, quanto disposto dal medesimo art. 2, comma 36 terdecies-36 quinquiesdecies, in relazione alla tassazione in capo al beneficiario e all’indedu­cibilità del costo per la società, in caso di concessione in godimento dei beni dell’impresa ai soci o ai familiari dell’imprenditore a fronte di corrispettivi inferiori ai valori di mercato [1]. A tale ultima disposizione, specificamente diretta a contrastare il fenomeno delle società di mero godimento, si affianca infine quella introdotta nell’art. 4, sesto comma, del D.P.R. n. 633/1972, il quale esclude dal novero delle attività commerciali, con [continua ..]


2. Le difficoltà di individuazione della ratio e delle finalità della normativa

Come si può notare, dunque, siamo di fronte ad una disposizione particolarmente severa, nella quale è ancora evidente, nonostante le modifiche che si sono succedute, l’intento del legislatore di osteggiare l’utilizzo di società c.d. di comodo – nell’art. 30 denominate anche «non operative» – costituite per fungere da contenitori nei quali collocare beni che, per motivi più vari, i contribuenti ritengono non opportuno detenere personalmente. Invero, la norma nasce per contrastare «l’uso improprio della struttura societaria che anziché essere finalizzata all’esercizio produttivo di attività commerciali, viene impiegata per consentire l’anonimato degli effettivi proprietari dei beni intestati alla società cui si unisce spesso la deduzione di costi che hanno poco a che fare con l’attività che, secondo gli statuti sociali, dovrebbe essere svolta dalla società, mentre di fatto detta società si limita alla mera detenzione di beni che sono tenuti a disposizione dell’effettivo proprietario (sia, o no, socio della società in questione)» [8]. Indubbiamente, la disposizione è idonea a comprendere nel suo ambito di applicazione quelle situazioni nelle quali si assiste ad uno sviamento rispetto alla causa tipica del contratto di società, che l’art. 2247 c.c. individua nello svolgimento in comune di un’attività economica, laddove i beni intestati alla società vengono sostanzialmente tenuti a disposizione dei soci, dissimulando l’esistenza di una comunione di mero godimento. Essa, tuttavia, per come è formulata, e per come lo è stata in passato, si presta ad essere applicata ad un novero di situazioni ben più ampio, nel quale la società titolare dei beni svolge comunque un’attività economica, anche di carattere commerciale, pur non riuscendo a raggiungere il livello di ricavi o di volume d’affari che il legislatore considera come soglia minima per escludere la non operatività (c.d. test di operatività). Da questo punto di vista, la disposizione potrebbe apparire non proporzionata rispetto all’obiettivo originariamente indicato dal legislatore di contrasto dell’uso improprio della struttura societaria [9], un obiettivo – tipicamente dissuasivo – di carattere extrafiscale [continua ..]


3. Segue: verso una “catastizzazione” delle società di capitali?

Già prima di tali modifiche, comunque, era stata prospettata l’idea che la pretesa di forfettizzare un reddito minimo, parametrato al costo fiscalmente riconosciuto dei beni patrimoniali, potesse sottendere la volontà di utilizzare la disposizione de qua per contrastare comportamenti più propriamente evasivi [12], consistenti nell’occultamento di ricavi o nella sovraesposizione di costi, in un contesto di antieconomicità predeterminata sulla scorta della predetta sproporzione tra il volume dei “componenti positivi rilevanti” (o del volume d’affari, per quanto concerne l’IVA) e la consistenza della struttura patrimoniale della società. Ma anche questa ipotesi ricostruttiva non va esente da critiche sul piano della coerenza e della ragionevolezza: intanto perché l’idea che il mancato raggiungimento di certe soglie di “componenti positivi rilevanti” sia un evento sintomatico di evasione appare piuttosto arbitraria, sia di per sé, sia, a maggior ragione, in mancanza di una dimostrazione scientifica circa la correlazione che il legislatore ha fissato tra il costo fiscalmente riconosciuto di certi asset e il volume di componenti positivi dagli stessi ritraibile. Meno arbitraria dovrebbe essere, in questa prospettiva, la presunzione basata sull’esistenza di un congruo numero di esercizi in perdita [13], trattandosi di una situazione che, secondo l’id quod plerumque accidit, potrebbe confliggere con quella che costituisce la normale logica economica sottesa all’esercizio di un’attività commerciale e potrebbe legittimare l’ipotesi che il contribuente, nonostante la realizzazione di perdite ripetute, trovi la convenienza a continuare nell’esercizio dell’impresa in operazioni che non vengono dichiarate o nel fittizio sostenimento di costi. Il che non fa venir meno i rilevanti profili di criticità che inficiano la disciplina delle società in perdita sistematica, profili che attengono alla mancata fissazione di soglie quantitative alle perdite necessarie per rientrare nel novero delle società di comodo (sicché, potrebbero finire per essere considerate tali anche società con modeste, ancorché reiterate, perdite fiscali, ma con rilevanti volumi di ricavi e utili di bilancio) e alla più generale arbitrarietà della presunzione di non operatività [continua ..]


4. Segue: dubbi di costituzionalità anche sulla maggiorazione dell’aliquota IRES

Il tutto aggravato dal fatto che tale reddito viene assoggettato ad un’ali­quota IRES maggiorata, che – in mancanza di una maggiore capacità contributiva rispetto al reddito dichiarato dalle altre società, a parità di importo – assume i tratti di una misura para-sanzionatoria, con una palese ed inaccettabile deviazione rispetto alla funzione del tributo – e quella dell’imposta, in particolare – ed una conseguente violazione degli artt. 3 e 53 Cost. [21]. Giova, infatti, in proposito rammentare che, secondo il consolidato orientamento della Corte costituzionale [22], «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione». Ne consegue che, rispetto ai principi di cui agli artt. 3 e 53 Cost., la Corte è «chiamata a verificare che le distinzioni operate dal legislatore tributario, anche per settori economici, non siano irragionevoli o arbitrarie o ingiustificate (sentenza n. 201 del 2014): cosicché in questo ambito il giudizio di legittimità costituzionale deve vertere “sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione” (sentenza n. 111 del 1997; ex plurimis, sentenze n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012)». Pertanto, «la possibilità di imposizioni differenziate deve pur sempre ancorarsi a una adeguata giustificazione obiettiva, la quale deve essere coerentemente, proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella struttura dell’imposta (sentenze n. 142 del 2014 e n. 21 del 2005)» [23]. Ebbene, nel caso di specie, mi pare sia lampante che l’incremento di aliquota IRES per le società di comodo – anche a volerlo inquadrare in un’ottica dissuasiva rispetto alla strumentalizzazione della forma della società commerciale – non trova alcuna giustificazione nella struttura dell’imposta e, soprattutto, in alcun elemento della struttura del tributo che denoti una maggiore capacità contributiva delle società [continua ..]


5. Alcuni correttivi che tuttavia non risolvono le criticità sopra evidenziate

Va detto che i dubbi che aleggiano sulla disposizione sono solo in parte attenuati da alcune previsioni che mitigano la rozzezza e la severità dell’im­pianto normativo. Mi riferisco alla scelta legislativa di assumere, ai fini del test di operatività, i “componenti positivi rilevanti” e il valore dei beni e delle immobilizzazioni in base alle risultanze medie dell’esercizio e dei due precedenti, evitando così che il risultato del test possa essere distorto da situazioni contingenti e possa invece riflettere un andamento maggiormente consolidato. Dall’altra parte, vanno accolte favorevolmente le modifiche che nel corso degli anni sono state introdotte al novero della fattispecie di esclusione, di cui all’art. 30, comma 1, secondo periodo, tese ad ampliare il catalogo delle situazioni al verificarsi delle quali non trova applicazione la disciplina delle società non operative [28]. Si tratta tuttavia di fattispecie che sembrano essere ispirate a logiche non univoche, che comprendono situazioni nelle quali è ragionevole ritenere che – a prescindere dal volume dei “componenti positivi rilevanti” – le società siano dotate di una significativa operatività [29], accanto a situazioni nelle quali la decisione di adottare la struttura societaria non dipende da una scelta dei soci [30], ovvero a situazioni nelle quali è fisiologico che le società non raggiungano determinati livelli di ricavi o di reddito [31], ovvero ancora situazioni nelle quali è improbabile che la struttura societaria sia stata costituita per ottenere benefici disapprovati dall’ordinamento [32], ovvero infine situazioni nelle quali vengono superati altri parametri previsti dall’ordinamento per contrastare comportamenti evasivi [33]. A tali fattispecie, peraltro, vanno aggiunte quelle previste con provvedimento del Direttore dell’Agenzia, al quale il comma 4 ter dell’art. 30 rimette – invero senza particolari vincoli e criteri direttivi [34] – l’individuazione di «determinate situazioni oggettive» in cui le disposizioni in tema di società di comodo non trovano applicazione [35]. Senonché, i correttivi alla modalità di computo e l’ampliamento delle fattispecie di esclusione automatica non vanno ad intaccare i dubbi di costituzionalità e [continua ..]


6. L’operatività del meccanismo impositivo: la prova dei presupposti da parte dell’Amministrazione finanziaria in caso di mancata presentazione dell’istanza di interpello

Venendo ora ai profili che più specificamente attengono all’onere dimostrativo, abbiamo detto che la disposizione di contrasto alle società di comodo si impernia sull’inversione a carico del contribuente: è la società che, al verificarsi dei presupposti sopra indicati, deve fornire la prova liberatoria, sul cui oggetto mi concentrerò in seguito. Prima però giova rammentare che, come avrò cura di approfondire più avanti, sul piano procedimentale, si delineano due percorsi: l’uno che muove dalla presentazione dell’istanza di interpello di cui al comma 4 bis dell’art. 30, attraverso il quale il contribuente può dimostrare l’esistenza di «circostanze obiettive» – originariamente qualificate come «di carattere straordinario» – che hanno reso «impossibile» il superamento del c.d. test di operatività ovvero il raggiungimento del livello di reddito predeterminato ovvero ancora l’effettuazione di operazioni rilevanti ai fini IVA, cui può fare seguito una risposta negativa che il contribuente – a differenza di quanto avveniva in precedenza, quando l’interpello ero inquadrato tra quelli disapplicativi di norme antielusive [39] – non può più autonomamente impugnare [40] o dalla quale il contribuente può discostarsi, non applicando la disciplina delle società di comodo e riservandosi di impugnare l’eventuale successivo avviso di accertamento; l’altro che contempla la mancata presentazione dell’istanza di interpello, cui può far seguito l’emissione di un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia. Ebbene, in questo secondo caso, la prova dei presupposti per l’applica­zione della disposizione incombe sull’Amministrazione finanziaria, la quale, dunque, per avanzare la pretesa nei confronti del contribuente, basata sull’ap­plicazione del meccanismo in esame, dovrà dimostrare che il contribuente rientra tra i soggetti cui si applica la disposizione e che esso non supera il c.d. test di operatività, attraverso l’applicazione dei parametri previsti dal comma 1 dell’art. 30, alle risultanze medie dei valori patrimoniali, così come stabilito dal comma 2. La stessa Amministrazione dovrà poi dimostrare che il soggetto, qualificato come non operativo, non [continua ..]


7. Il ribaltamento dell’onere probatorio sul contribuente

Una volta che l’Amministrazione abbia dimostrato la sussistenza dei presupposti per annoverare la società tra quelle di comodo, escludendo anche il verificarsi delle fattispecie di disapplicazione automatica, e abbia dimostrato che il contribuente non ha dichiarato un reddito almeno pari a quello predeterminato in base ai parametri di cui all’art. 30, comma 3, l’onere probatorio si ribalta sul contribuente. Questi potrà quindi dimostrare che non sussistono i presupposti per l’applicazione della disposizione, avendo superato il c.d. test di operatività, ovvero che rientra in una delle fattispecie di esclusione automatica ovvero che, pur rientrando nel novero delle società di comodo, il reddito prodotto è comunque superiore a quello predeterminato ai sensi dell’art. 30, comma 3. Inoltre, il contribuente potrà dimostrare che si verificano le fattispecie di esclusione previste dai sopra illustrati provvedimenti del Direttore dell’Agen­zia n. 2008/23681 e n. 2012/87956. In sostanza, non esistono ragioni per negare che il contribuente possa fornire la prova contraria su tutti gli elementi valorizzati dall’Agenzia per formulare la contestazione, siano essi relativi ai presupposti di applicazione della disposizione, al test di operatività e alla quantificazione dell’imponibile. Ciò ancorché il legislatore [46] abbia ritenuto di eliminare dal testo del comma 1 dell’art. 30 l’inciso «salvo prova contraria», decisione che non può essere intesa come diretta a trasformare la presunzione di non operatività da relativa ad assoluta [47], a meno di non voler esacerbare le perplessità e i dubbi di costituzionalità che già incombono sulla disposizione, oltre che di contrasto con i principi europei; né, come vedremo, può sottendere la volontà di relegare il momento del dispiegamento dell’onere probatorio del contribuente alla sede dell’interpello. Il punto più delicato, però, ed anche quello su cui si è sviluppato il più intenso contenzioso, attiene ad un altro profilo. Esso riguarda la possibilità per il contribuente di dimostrare che il mancato superamento del c.d. test di operatività è dipeso da circostanze oggettive che hanno reso impossibile il conseguimento dei “componenti positivi [continua ..]


8. Le recenti aperture della Corte di Cassazione sulla prova contraria del contribuente

Su questo versante, va detto, infatti, che, nonostante la chiara apertura del legislatore, si è manifestato un atteggiamento – che, come dirò oltre, la stessa Cassazione pare stia riconsiderando – in termini piuttosto rigidi nell’inter­pretazione e nell’applicazione della clausola in questione. Se, da un lato, il concetto di impossibilità si ritiene – con una formula, invero, stereotipata – debba essere inteso «non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive situazioni di mercato» [50], dall’altro lato, è ricorrente l’idea – nelle pronunce della Suprema Corte – che le circostanze oggettive «vadano identificate in situazioni esterne che non dipendono e/o sono influenzate dalle scelte del contribuente» [51]. Il quadro che ne risulta suscita forti perplessità, perché, a dispetto delle dichiarazioni di principio orientate ad interpretare in modo elastico la disposizione, nella realtà dei fatti i giudici di legittimità sono arrivati a circoscrivere le fattispecie di disapplicazione a quelle dipendenti da caso fortuito o forza maggiore [52] ovvero da scelte obbligate e ineludibili [53]. Ora, a me pare che siamo di fronte ad un orientamento giurisprudenziale che interferisce con la libertà di iniziativa economica e che si muove su un crinale argomentativo che sembra andare oltre la funzione antielusiva che la stessa Cassazione attribuisce alla disposizione di cui ci stiamo occupando, sbilanciando il ragionamento verso impostazioni dirigistiche nelle quali si pretende che l’ente societario, in quanto tale, debba comunque raggiungere determinate soglie di ricavi e/o di reddito (rapportate a determinati asset patrimoniali) e non si è disposti ad accettare che la società commerciale – alla stessa stregua dell’imprenditore individuale (che non è interessato dalla disposizione) – pur senza tradire la funzione economico-sociale del contratto di società e pur esercitando un’attività comunque qualificabile come commerciale, organizzata e orientata alla produzione e/o allo scambio di beni e servizi, possa adottare scelte che si rivelano improduttive, perché errate o frutto di incapacità, come pure scelte che, sia pure temporaneamente non profittevoli, si mantengono pur sempre [continua ..]


9. I profili procedimentali e il loro impatto sull’onere probatorio che grava sul contribuente

Per concludere, prendiamo in esame i profili procedimentali, che attengono al dispiegarsi dell’onere probatorio rispetto all’applicazione del regime delle società di comodo, e che a mio avviso finiscono con l’impattare sull’am­piezza della facoltà difensionale del contribuente. Come detto, il 4 bis dell’art. 30, introdotto dalla L. n. 244/2007, prevede la possibilità per il contribuente di presentare un’istanza di interpello all’Agenzia delle entrate, al fine di uscire dal novero delle società di comodo, attraverso la dimostrazione dell’esistenza di «circostanze obiettive» – originariamente qualificate come «di carattere straordinario» – che hanno reso «impossibile» il superamento del c.d. test di operatività ovvero il raggiungimento del livello di reddito predeterminato ovvero ancora l’effettuazione di operazioni rilevanti ai fini IVA. Tale interpello, originariamente ricondotto alla tipologia di quelli disapplicativi di cui all’art. 37 bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973, è oggi classificato dal legislatore nella categoria degli interpelli probatori di cui all’art. 11, comma 1, lett. b), dello Statuto del contribuente. Ora, quello che qui preme evidenziare è come si collochi la possibilità di ricorrere all’interpello rispetto alla tematica dell’onere probatorio. Dico subito che, nonostante le resistenze inizialmente manifestate dall’A­genzia delle entrate [65], possiamo oggi considerare pacifico che il ricorso all’in­terpello sia una mera facoltà riconosciuta al contribuente e che la mancata presentazione dell’istanza non impedisca allo stesso l’accesso alla tutela giurisdizionale avverso l’eventuale avviso di accertamento emesso dall’ente impositore. In tal senso è stabilmente orientata la Corte di Cassazione, oltre che attenta dottrina [66], sulla scorta di argomentazioni assolutamente condivisibili, che fanno leva sulla ratio della normativa e sulla funzione dell’in­terpello [67], oltre che «in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.)» [68]. Sicché è possibile che la società – pur non avendo superato il c.d. test di vitalità [continua ..]


10. Considerazioni conclusive

In conclusione, mi sembra che anche l’evoluzione della normativa procedimentale attinente all’interpello e le regole processuali confermino la fondatezza dell’impostazione – cui sono pervenuto all’esito dell’indagine condotta – che non ravvisa limiti al diritto di prova contraria del contribuente. Si tratta di un’impostazione che inizia a trovare credito anche nella giurisprudenza della Cassazione, da tempo arroccata su posizioni molto restrittive, le quali mi sembrano interferire con la libertà di iniziativa economica e sbilanciare il ragionamento verso impostazioni dirigistiche nelle quali si pretende che l’ente societario, in quanto tale, debba comunque raggiungere determinate soglie di ricavi e/o di reddito e non si è disposti ad accettare che la società commerciale, pur senza tradire la funzione economico-sociale del contratto di società e pur esercitando un’attività comunque qualificabile come commerciale, organizzata e orientata alla produzione e/o allo scambio di beni e servizi, possa adottare scelte che si rivelano improduttive, perché errate o frutto di incapacità, come pure scelte che, sia pure temporaneamente non profittevoli, si mantengono pur sempre all’interno di un paradigma imprenditoriale, se inquadrate in una visione strategica più ampia e di più lungo periodo. Ebbene, tale orientamento viene ora contraddetto della stessa Corte di cassazione, la quale, dopo aver confermato la rilevanza – ai fini dell’esclusione dal regime – degli “eventi sfortunati”, ha riconosciuto analoga valenza alla “inettitudine produttiva” ed è infine pervenuta a riconoscere espressamente al contribuente la possibilità di vincere la presunzione di inoperatività dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società. Non è, questo, un approdo sufficiente per superare le diverse criticità evidenziate nel corso del presente lavoro, che affliggono una disposizione che, comunque la si guardi, non consente di pervenire ad una ricostruzione appagante sul piano della ragionevolezza e della coerenza tra le finalità che il legislatore parrebbe aver inteso perseguire e la formulazione [continua ..]


NOTE