Nella sentenza in esame la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla disciplina convenzionale applicabile ai redditi corrisposti dal Governo di uno Stato ad un residente dell’altro Stato contraente per prestazioni di consulenza rese nel primo Stato. La Corte ha ritenuto che si debba applicare l’art. 19 (funzioni pubbliche) anziché l’art. 14 (professioni indipendenti) in quanto la prima disposizione ha natura di lex specialis rispetto all’art. 14. La pronuncia si presta a numerose critiche, ponendosi in contrasto con l’interpretazione che il Commentario al Modello OCSE offre, in particolare sul rapporto fra gli artt. 19 e 15 del Modello OCSE, sulla rilevanza della definizione di “Stato” nel contesto dell’art. 19 e sulla definizione del termine business, nel contesto del par. 3 dell’art. 19.
The case under examination deals with the double tax treaties’ rules concerning Governmental payments to a service provider that is resident of the other Contracting State for consultancy activities carried out in the first mentioned State. The Italian Supreme Court applied art. 19 (governmental functions) inspite of art. 14 (independent services), since the former one is a lex specialis of art. 14. The judgment is highly disputa ble, in sharp contrast with the Commentary of the OECD Model Tax Convention, in particular on the relationship between arts. 19 and 15, on the relevance of the definition of “State” and the notion of “business” with regard to para. 3 of art. 19.
KEYWORDS: double taxation conventions, independent services
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1. La questione controversa - 2. La decisione della Corte - 3. L’art. 19 quale lex specialis rispetto all’art. 15 delle Convenzioni - 3.1. Irrilevanza del dato testuale nel confronto con il Modello OCSE post-1994 - 4. Perplessità in merito al destinatario dei servizi “resi” all’ente - 4.1. La nozione di “Stato”: enti “integral part” dello (o “wholly owned” dallo) Stato - 5. Sulla natura “pubblica” del servizio e sulla (negletta) business carve-out dell’art. 19, par. 3 - 6. Osservazioni conclusive sul fil rouge che ha condotto a questa discutibile pronuncia della Suprema Corte - NOTE
La pronuncia della Corte di Cassazione in annotazione si segnala all’attenzione del lettore per talune opinioni, scarsamente condivisibili, in merito alla tassazione transnazionale dei compensi erogati da enti governativi a favore di soggetti residenti in Italia. Come dato rilevare dall’esposizione dei fatti, il contribuente ha percepito nel periodo d’imposta 2005 redditi derivanti da “compensi erogati dall’Emirato del Dubai per una attività di consulenza e promozione nell’ambito della disciplina sportiva di resistenza equestre”. Avverso la pronuncia resa in prima cure, in favore del contribuente, l’Agenzia delle Entrate ha proposto appello sostenendo che dette somme rientrino nella categoria del reddito di lavoro autonomo e, pertanto, debbano essere disciplinate dall’art. 14 della Convenzione contro le doppie imposizioni (da qui in avanti, per brevità, la “Convenzione”) stipulata tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti (“EAU”), escludendo, coerentemente, l’applicazione dell’art. 19 della stessa Convenzione, concernente gli emolumenti percepiti per lo svolgimento di funzioni pubbliche [1]. Le due disposizioni prevedono regole allocative diverse: (i) l’art. 19, par. 1, lett. a), prevede che lo Stato che “paga” il corrispettivo abbia potestà impositiva esclusiva (impedendo all’altro Stato di esercitare la propria potestà impositiva) [2]; (ii) l’art. 14, viceversa, riconosce una potestà impositiva piena dello Stato di residenza (Italia), consentendo allo Stato della fonte (EAU) di tassare detto reddito nel solo caso in cui sia ivi presente una “base fissa”. La Commissione Tributaria Regionale ha accolto l’appello fondato sulla censura appena esposta, ritenendo, altresì, che l’applicazione della Convenzione in esame impone al contribuente di offrire la prova di avere sostenuto il pagamento delle imposte negli EAU (prova che, tuttavia, non è stata offerta). Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale è stato proposto ricorso per Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 19 della Convenzione, nella parte in cui “la C.t.r. ha escluso che le somme erogate al ricorrente dal Governo dell’Emirato del Dubai rientrassero nell’ambito applicativo dell’art. 19 della Convenzione che ne [continua ..]
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del contribuente sulla scorta delle seguenti tre motivazioni. In primo luogo, la Corte ritiene vi sia un “rapporto di specialità” tra l’art. 14 (rubricato “Professioni indipendenti”) e l’art. 19 (rubricato “Funzioni pubbliche”) della Convenzione, nel senso che l’esercizio di una libera professione (o attività indipendente) debba ricadere sotto il vigore dell’art. 14 della Convenzione, ad eccezione delle ipotesi in cui il residente in uno Stato contraente presti servizi a favore di uno Stato contraente o ad una sua suddivisione politica o amministrativa o ente locale, ipotesi nella quale troverà applicazione l’art. 19 della Convenzione. In seconda istanza, la Corte ritiene che l’espressione “funzione pubblica” non debba esser ristretta alle “funzioni pubbliche tipiche (… amministrativa, legislativa e giudiziaria) afferenti il Governo dello Stato [ma, bensì] … ricomprendere qualunque servizio richiesto dal Governo, che vi ravvisa profili interesse pubblico, come può essere il promovimento a livello nazionale di una disciplina sportiva”. In ultima istanza ritiene che la norma convenzionale preposta all’eliminazione della doppia imposizione (art. 23 della Convenzione) confermi la regola della esclusiva imponibilità del reddito nello Stato della fonte in ragione di quanto disposto dal par. 2 dell’art. 23 della Convenzione che prevede il riconoscimento del credito d’imposta sui redditi prodotti all’estero, subordinando, tuttavia, l’inclusione del reddito estero nella base imponibile del contribuente in Italia a condizione che “espresse disposizioni della presente Convenzione non stabiliscano diversamente”. L’art. 19 della Convenzione, ad avviso della S.C., integra “un’eccezione espressa, convenzionalmente stabilita, alla regola secondo cui i redditi conseguiti nell’altro Stato … sono normalmente inclusi nella base imponibile per il calcolo delle imposte nazionali sul reddito”. L’analisi della pronuncia offre il destro per approfondire taluni aspetti (destinati e generare, verosimilmente, contrasti interpretativi) e, in particolar modo: (i) il ruolo di lex specialis dell’art. 19 rispetto all’art. 15 nel contesto delle Convenzioni conformi al Modello OCSE; [continua ..]
Merita attenta considerazione, in primo luogo, l’affermazione della S.C. in merito al rapporto “di specialità” intercorrente fra gli artt. 14 e 19 della Convenzione. Secondo la Corte, la disciplina generale relativa ai redditi derivanti da “professioni indipendenti” è contenuta nell’art. 14, salvo che la prestazione non sia resa a favore di un ente statale dell’altro Stato contraente, caso nel quale troverà applicazione l’art. 19 della Convenzione che assume, quindi, il ruolo di lex specialis. La conclusione cui giunge la Corte trascura, del tutto, le indicazioni fornite dal Commentario al Modello OCSE alla luce delle modifiche intervenute nel 1994. Il testo dell’art. 19, par. 1, lett. a), del Modello OCSE è stato modificato nel 1994, prevedendo che l’art. 19 trovi applicazione con riferimento ai “salary, wages and other similar remunerations” [3], chiarendo che l’ambito applicativo degli articoli 15 e 19 è il medesimo in quanto entrambi si applicano nel solo caso in cui il pagamento abbia fonte in un rapporto d’impiego di natura dipendente e il secondo (art. 19) introduce una lex specialis rispetto al primo (art. 15) [4]. Il Commentario al Modello OCSE chiarisce, inoltre – senza concedere spazio alcuno a speculazioni di segno opposto – che tale modifica “was intended to clarify the scope of Article, which only applies to State employees … and not to persons rendering indipendent services to a State” [5]. Potendosi, quindi, escludere, in nuce, l’applicazione dell’art. 19 della Convenzione ai redditi derivanti da “professioni indipendenti”, si può dubitare dell’esattezza della conclusione addotta dalla Corte che l’art. 19 rappresenti una lex specialis rispetto all’art. 14 della Convenzione, che si applica alle professioni indipendenti. Volendo descrivere, con maggiore puntualità, il percorso ermeneutico che la Corte avrebbe dovuto svolgere, essa avrebbe dovuto interpretare la nozione di “remunerazione” contenuta nell’art. 19 (norma alla quale si intende dar applicazione) in combinato disposto con quella di “salary, wages and other similar remunerations”, prevista dall’art. 15 della Convenzione. A fronte della prova che il rapporto di lavoro in esame fosse inquadrabile come rapporto di [continua ..]
Sviluppando l’argomento letterale, riconosciuto dalla Convenzione di Vienna sull’interpretazione dei Trattati dal 1969 (per brevità, la “Convenzione di Vienna (1969)”) come uno dei mezzi primari d’interpretazione, si potrebbe giungere a conclusioni opposte rispetto a quelle che abbiamo sostenuto nel precedente paragrafo. In particolare, valorizzando la differenza che sussiste fra il testo del Modello OCSE (nella versione post-1994) e il testo dell’art. 19 della Convenzione [12], che disciplina l’allocazione della potestà impositiva fra i due Stati contraenti in relazione alle sole “remunerazioni” (remunerations), si può osservare che la norma della Convenzione non menzioni, a differenza del Modello (post-1994), i “salari” o gli “stipendi”. Si potrebbe affermare, in altri termini, che la modifica dell’art. 19 del Modello OCSE (intervenuta nella prima metà del 1994) non sia stata volutamente recepita nella Convenzione in esame (stipulata nel 1995) in quanto i due Stati volevano espressamente ampliare la portata dell’art. 19 della Convenzione ricomprendendovi anche i redditi diversi da quelli derivanti da employment [13]. Tale circostanza potrebbe, quindi, fondare la tesi che l’art. 19 della Convenzione – a differenza dell’art. 15 – si applichi in tutti i casi di redditi pagati da enti governativi e, quindi, anche al di fuori di un rapporto di “lavoro dipendente”. Tale argomentazione non pare, tuttavia, convincente. A latere dell’argomento letterale [14] come noto, la Corte di Cassazione riconosce la validità dell’ausilio offerto dal Commentario al Modello OCSE [15], quale mezzo supplementare d’interpretazione ai sensi dall’art. 32 della Convenzione di Vienna, tanto al fine di corroborare [16] quanto al fine di superare un’interpretazione basata sul solo dato letterale. In questo caso, il riferimento al Commentario al Modello OCSE consente di affermare – come ha fatto la S.C., in precedenti sentenze – che le modifiche al Commentario di natura interpretativa, che siano intervenute in un momento successivo alla stipula di una Convenzione [17], possono essere impiegate al fine di interpretare la Convenzione. Utile richiamare, in proposito, l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione sulla nozione di [continua ..]
Altro profilo che sfugge all’analisi della S.C. è quello relativo all’individuazione, con esattezza, del soggetto destinatario dei servizi resi dal contribuente italiano. Si tratta di un profilo nient’affatto secondario. Nella pronuncia si dà contezza della circostanza che: (i) controparte del contribuente italiano fosse l’Emirato di Dubai (il governo statale, quindi) e che, (ii) il pagamento della remunerazione fosse stato posta a carico dello stesso Emirato. Non si menziona chi ne sia stato il beneficiario, tuttavia. Due i profili che, ad avviso di chi scrive, vengono ingiustamente negletti. Il primo – condizionato dalla struttura “federale” dell’altro Stato contraente – relativo alla individuazione esatta di quale sia lo Stato e il relativo governo cui la prestazione sia stata resa, laddove il “pagatore” potrebbe essere uno e il “beneficiario” altro [24]. Tale questione assume rilievo, immediatamente, ai fini dell’individuazione della legge statale (non federale) d’imposta alla quale si intende dare applicazione (ex art. 2 della Convenzione), posto che, nel caso sottoposto al vaglio della S.C., ciascuno dei sette Stati ha una propria imposta sui redditi (e taluni hanno speciali leggi d’imposta che si applicano in determinati settori) [25]. La questione [26], nasconde un secondo profilo – ben più insidioso del primo – ovvero il dubbio se la prestazione sia stata resa “a favore” di un ente ricadente in una delle tre categorie indicate nell’art. 19, par. 1, lett. a) della Convenzione, id est Stato contraente, suddivisione politica o amministrativa, ente locale (per brevità, lo “Stato ed enti pubblici”). Infatti, l’art. 19 della Convenzione non si applica indistintamente a tutti i compensi corrisposti dagli enti menzionati in precedenza ma nei soli casi in cui detti enti siano stati i “recipient of the services” [27], i beneficiari. L’analisi della pronuncia lascia presupporre che la questione non sia stata posta a base delle contestazioni mosse da parte dell’Agenzia delle entrate (sfuggendo, così, al vaglio dei giudici del merito e, infine, della Cassazione) e, sebbene tra le righe della sentenza emerga che l’emolumento sia stato corrisposto dal Governo statale (dell’Emirato di Dubai), non è parimenti [continua ..]
Nel paragrafo precedente è stata criticata la tesi avanzata dalla Suprema Corte nella ipotesi in cui non sia definito, con chiarezza, quale sia il soggetto a favore del quale sia stata svolta una data prestazione [30]. È il caso di svolgere qualche ulteriore precisazione sul punto. L’art. 19, par. 1, lett. a) della Convenzione si applica alle remunerazioni corrisposte da un “Contracting State or a political subdivision or local authority” ma né la nozione di “Stato” né quella di “suddivisione politica” o “autorità locale” vengono definite, adottando una formula convenzionale che ricomprenda degli specifici enti [31] facendo sorgere il quesito se l’art. 19 possa trovare applicazione anche nel caso in cui il beneficiario dei servizi non sia lo “Stato” o uno degli enti espressamente menzionati nella norma ma un ente interamente o parzialmente controllato dallo Stato, rientrante, ad esempio, nelle categorie dei (i) fondi pensione, (ii) banche centrali, (iii) fondi sovrani, ecc. Il tema in oggetto può essere affrontato alla luce delle modifiche del 2010 al Commentario al Modello OCSE [32]. Le modifiche introdotte nel 2010 hanno chiarito che nella nozione di Stato [33] rientrino un insieme di enti partecipati dagli Stati utilizzando, tuttavia diverse espressioni e, in particolare: (i) entità “State-owned”, come le banche centrali [34]; (ii) entità “wholly owned” [35] dagli Stati, come i fondi pensione [36] ovvero; (iii) entità che siano “wholly owned” e che siano state, altresì, “costituite” [37] dallo Stato ovvero, infine; (iv) entità che siano “integral part” dello Stato [38]. L’utilizzo di queste diverse espressioni può generare qualche perplessità in merito alla loro esatta portata e – trascurando l’ultima categoria [39] – ci si può domandare se la distinzione fra enti “interamente partecipati” ed enti che, viceversa, siano solo in parte partecipati dallo Stato, abbia qualche rilievo. Da una analisi delle conclusioni rassegnate nel Report del 2010 e delle relative modifiche apportate al Commentario si desume che i fondi sovrani siano un genus della species delle società interamente partecipate [40] e si può [continua ..]
Sullo sfondo degli argomenti sviluppati nei precedenti paragrafi si staglia una questione che potremmo ricondurre al tema dell’amministrazione “in senso oggettivo”. Sostiene, infatti, la Corte che l’applicazione dell’art. 19 della Convenzione sia giustificata dalla circostanza che “la nozione di ‘servizi resi allo Stato’ è … generale e si estende a ricomprendere qualunque servizio richiesto dal Governo, che vi ravvisa profili interesse pubblico, come può essere il promovimento a livello nazionale di una disciplina sportiva” contrapponendo questa ipotesi a quella delle “funzioni pubbliche tipiche (funzione amministrativa, legislativa e giudiziaria) afferenti il Governo dello Stato”. La Corte, giudicando irrilevante la rubrica legis (che menziona le “funzioni pubbliche”), interpreta l’espressione “servizi resi allo Stato” includendovi “qualunque servizio richiesto dal Governo, che vi ravvisa profili interesse pubblico, come può essere il promovimento a livello nazionale di una disciplina sportiva”. Appare evidente che la Corte interpreti la nozione di servizi alla luce degli interessi al cui perseguimento sia finalizzata l’azione dell’amministrazione (e, quindi, l’uso dei citati servizi [42]). A ben vedere, la nozione di interesse pubblico rappresenta un elemento presupposto all’“international courtesy and mutual respect between sovereign States” [43] che – ad avviso del Commentario al Modello OCSE e come conferma la migliore dottrina [44] – è posto a base dell’art. 19 della Convenzione, perché tutelare la sovranità dello Stato significa garantire che lo Stato possa liberamente esercitare le proprie prerogative iure imperii [45] espressione, appunto, degli interessi pubblici. Così argomentando, la nozione di servizio “reso allo Stato”, che non è definita convenzionalmente [46], si ritrae dal diritto interno dello Stato che applica la Convenzione che riteniamo debba essere lo Stato della fonte o, rectius, lo Stato “pagatore” [47]. Sebbene questa argomentazione non sia stata espressamente avanzata dalla Suprema Corte nella sentenza in annotazione essa, ad avviso di chi scrive, emerge chiaramente dall’iter lungo il quale si snoda la pronuncia e merita attenta [continua ..]
La pronuncia in annotazione evidenzia molte lacune nell’iter logico seguito dalla S.C. che ne condizionano profondamente la validità. Non è condivisibile l’affermazione in merito al rapporto di specialità che lega l’art. 19 (funzioni pubbliche) all’art. 14 della Convenzione (professioni indipendenti), essendo vero l’opposto ovvero che l’art. 19 non possa applicarsi nel caso dei redditi diversi da quelli di “lavoro dipendente”. L’art. 19 è, infatti, lex specialis rispetto all’art. 15 della Convenzione, regola generale sulla tassazione del reddito di lavoro dipendente. Non avrebbe pregio, peraltro, addurre il diverso tenore letterale della Convenzione in commento rispetto al Modello OCSE, considerato il valore ermeneutico del Commentario nel caso di modifiche con valore esplicativo. Parimenti non condivisibile è la pronuncia nella parte in cui omette di soffermarsi sul profilo soggettivo della fattispecie individuando, con puntualità, il soggetto a favore del quale i servizi siano stati resi, trattandosi di elemento imprescindibile al fine di dar corretta applicazione all’art. 19 della Convenzione. Ulteriore elemento che inficia il ragionamento della Corte è l’apparente sottovalutazione del ruolo del par. 3 dell’art. 19 che, viceversa, dovrebbe assumere un ruolo cruciale nell’interpretazione di fattispecie in cui i servizi siano resi a favore dello Stato in relazione a funzioni (quale quella esaminata nel caso sottoposto al vaglio della S.C.) che possano essere espressione di interessi di natura commerciale. L’esame delle numerose imprecisioni riscontrate nella pronuncia in annotazione, che si limita ad una superficiale lettura del testo dell’art. 19 della Convenzione [66], evidenza un comune denominatore, ossia l’affermazione apodittica di regole e principi senza attingere – a sostegno o contro le tesi sostenute nella pronuncia – alle indicazioni provenienti dal Commentario al Modello OCSE, strumento ermeneutico principe in materia di controversie relative all’applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni. Inesattezze che, non si può fare a meno di osservare, sono il frutto della vicenda processuale e delle deduzioni difensive addotte dalle parti in giudizio che, alquanto sorprendentemente, hanno scelto di non sviluppare le argomentazioni attingendo al [continua ..]