La Consulta, pur giungendo ad una pronuncia di infondatezza della questione relativa all’originaria inclusione del coniuge tra i beneficiari dell’esenzione di cui all’art. 3 comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990, solleva dei dubbi di legittimità sull’agevolazione nel suo complesso.
The Constitutional Court, although considering groundless the issue relating to the original inclusion of the spouse among the beneficiaries of the tax exemption provided by Art. 3 para. 4 ter, Legislative Decree no. 346/1990, raises doubts of constitutional tax break as a whole.
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1. Premessa - 2. L’esenzione disposta dall’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990 e l’evoluzione del contesto nella quale essa s’inserisce - 3. Inquadramento dell’esenzione di cui all’art. 3, comma 4 ter nel genus delle cosiddette agevolazioni fiscali. Alla ricerca della ratio perduta - 4. La sentenza del 17 dicembre 2014 del Tribunale Costituzionale tedesco quale precedente rilevante nella valutazione sull’autorimessione e condizionante l’esito del giudizio - 5. Conclusioni - NOTE
Con la sentenza in commento la Corte costituzionale, ha rigettato la questione di legittimità sollevata con riferimento alla mancata (originaria) inclusione del coniuge quale beneficiario dell’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990. Il giudice a quo lamentava una irragionevole disparità di trattamento sostenendo che l’art. 3, comma 4 ter, D.Lgs. n. 346/1990 nella versione vigente ratione temporis recasse un vulnus, innanzitutto, all’art. 3, comma 1, Cost., in relazione al principio di eguaglianza. Argomentando per l’estensione dell’agevolazione al soggetto richiamato, la CTR sosteneva infatti che l’esclusione del coniuge dall’agevolazione tributaria avrebbe compromesso la “continuità familiare della gestione aziendale”, della quale la continuità “generazionale”, finalità cui sarebbe diretta la norma oggetto di scrutinio, costituirebbe una specificazione. Individuando il parametro su cui orientare la verifica di legittimità nell’art. 29 Cost, il giudice rimettente sosteneva che la norma in esame avrebbe, in sostanza, la funzione di tutelare la famiglia, di talché l’esclusione del coniuge dall’esenzione avrebbe comportato anche un vulnus alla “tutela del nucleo familiare”. Il giudice rimettente sollecitava, insomma, l’emissione di una pronuncia additiva con la quale la Corte avrebbe potuto ovviare al “vuoto normativo” solo successivamente colmato ad opera di uno specifico intervento normativo, privo di effetti retroattivi. Sebbene ribadendo, in via generale, la piena ammissibilità per giurisprudenza costante di tale tipo di pronuncia e la sicura possibilità di vagliare le scelte discrezionali del legislatore laddove si rivelino arbitrarie e irrazionali nonché di estendere le agevolazioni fiscali quando lo esiga l’identità di ratio, la Consulta giunge invece ad una pronuncia di non fondatezza delle questioni sollevate, pronuncia che, del resto, esplica e avrebbe esplicato anche in caso di accoglimento delle eccezioni, effetti molto limitati. Trattandosi infatti di un intervento additivo – quello richiesto dal giudice a quo – che avrebbe dovuto operare solo per il passato, la disciplina sarebbe comunque rimasta tal quale è [continua ..]
La Consulta non manca, infatti di compiere, un’accurata indagine sulla ratio dell’agevolazione al fine di verificare se effettivamente la norma censurata non presenti profili di irrazionalità circa l’originaria esclusione del coniuge fra i beneficiari dell’esenzione introdotta in tempi relativamente recenti, e ciò fa tracciando preliminarmente il quadro normativo in cui la previsione oggetto di eccezione di legittimità costituzionale s’inserisce. Il primo richiamo è alla Raccomandazione n, 94/1069/CE della Commissione europea sulla successione nelle piccole e medie imprese, adottata il 7 dicembre 1994 e seguita anche dalla Comunicazione n. 98/C 93/02 della Commissione relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, adottata il 27 marzo 1998. L’indicazione proveniente dagli organi unionali era quella di ridurre la tassazione delle plusvalenze in caso di vendita o cessione (art. 7), e di moderare, a condizione che l’attività dell’impresa proseguisse in modo effettivo per un certo periodo minimo, i tributi dovuti per il trasferimento tramite donazione o successione ereditaria (art. 6). Benché la dottrina [1] e la giurisprudenza [2] si siano riferite a tale Raccomandazione per giustificare l’introduzione della totale esenzione disposta con l’art. 3, comma 4 ter, non si può nascondere (e la Corte lo evidenzia chiaramente) che il contesto normativo nel quale intervenivano gli organi sovranazionali era profondamente diverso da quello attuale che, almeno in Italia, deriva da successivi interventi normativi. Nel momento in cui la Commissione europea ebbe a pronunciarsi, infatti, nell’ordinamento domestico il peso fiscale gravante sul passaggio del patrimonio per effetto della successione era assai gravoso. Coesistevano infatti due tipologie di prelievi, originariamente distinti e poi fusi in un unico tributo: l’imposizione (progressiva) sul valore globale dell’asse ereditario netto e l’imposizione (proporzionale) sulle singole quote. Tale sistema, vivacemente criticato in dottrina, già presente nei testi unici pre-riforma, transitò nella regolamentazione del tributo sulle successioni e le donazioni, come risultante dalla novella degli anni ’70 (D.P.R. n. 637/1972) e, successivamente, nel T.U. n. 346/1990 che riprodusse [continua ..]
Atteso, dunque, che secondo la ricostruzione effettuata relativamente all’individuazione del presupposto del tributo e della sua ratio, l’imposta sulle successioni e le donazioni imporrebbe una generalizzata applicazione ai soggetti che per effetto della successione o della liberalità vedano incrementato il loro patrimonio, la Consulta si pone il problema di individuare la finalità dell’intervento normativo volto invece ad introdurre per tutti i trasferimenti successori o con causa liberale aventi un determinato oggetto, una generalizzata esenzione. Tale operazione non pare affatto superflua al fine di apprezzare la possibile estensione, in ragione della eventuale sussistenza di una eadem ratio, del regime di esenzione anche nella fattispecie prospettata dal giudice a quo. Pur riconoscendo la discrezionalità del legislatore, la Corte correttamente rivendica la propria competenza sul giudizio di proporzionalità in merito alle scelte effettuate laddove esse abbiano evidentemente implicato un bilanciamento comportante una deroga al principio di capacità contributiva. Dato l’ampio riferimento al contesto normativo nel quale il regime indubbiato s’inserisce, e atteso che l’excursus storico è risultato funzionale, a nostro avviso, a delineare i tratti essenziali del tributo, l’indagine sulla natura dell’intervento normativo non poteva che portare, in primo luogo, all’esclusione di un suo carattere strutturale. Il regime in questione non concorre alla realizzazione di finalità intrinseche al prelievo, ma al contrario, pare evidente che, nell’ottica della Corte, ne impedisca la piena attuazione. Ne consegue che la deroga introdotta non può che essere valutata alla stregua di un’agevolazione in senso proprio, con la conseguenza che la sua ratio (ed eventuale legittimità) va ricercata nell’interesse extrafiscale perseguito. Su questo punto la Consulta innesta la valutazione delle censure del rimettente, fondate su un prospettato vulnus agli artt. 3 e 29 Cost. in ragione della mancata inclusione del coniuge nel novero dei familiari esentati dal pagamento dell’imposta In altri termini, l’attenzione si sposta sulle argomentazioni svolte dal rimettente a giustificazione dell’eccezione sollevata senza che la ragione della esenzione sia [continua ..]
Il richiamo alla sentenza del Tribunale costituzionale tedesco del 17 dicembre 2014, assume una certa rilevanza nell’economia del provvedimento in esame, in quanto risulta utile, non solo, come alcuni hanno notato, nella misura in cui denota la volontà del Giudice delle Leggi di guardare con sempre maggior interesse alle pronunce adottate in altri Stati a fini di coordinamento europeo [23], ma soprattutto perché palesando l’attenzione della Corte al tema della modulazione degli effetti delle pronunce di incostituzionalità in considerazione delle conseguenze economico-finanziarie che dalle pronunce stesse possono derivare, fornisce una chiave di lettura in merito all’esito del giudizio [24]. Ed in effetti, l’approccio innovativo prima richiamato che giustifica l’inconsueto, e apparentemente incoerente percorso logico seguito nel giungere (unicamente) al rigetto della questione di legittimità posta dal rimettente, parrebbe trovare un senso laddove si ponga in luce l’orientamento dei giudici di legittimità tedeschi sul tema appena indicato. In Germania, la Legge sul Tribunale costituzionale federale prevede la possibilità di pronunciare decisioni di incostituzionalità-nullità o di (mera) incompatibilità, tale prerogativa della Corte tedesca è attualmente disciplinata per legge ma si tratta di un potere enucleato in via pretoria. L’assenza di una specifica previsione normativa in ordine agli effetti delle pronunce e l’opportunità di ricercare una soluzione che tenesse conto delle diverse esigenze nei vari casi sottoposti alla sua attenzione, ha portato all’auto attribuzione di questo potere poi ratificato in via normativa. Le decisioni di incompatibilità sono attualmente pronunciate laddove ricorrano dei presupposti che lo stesso Tribunale costituzionale federale ha individuato. La dichiarazione di incompatibilità deve risultare funzionale, ad esempio, alla tutela di interessi generali. Le pronunce di questo tipo presuppongono, dunque, una valutazione sul pregiudizio arrecato nel periodo transitorio dalla normativa incompatibile con la Costituzione. Tra gli interessi generali richiamati si ritrova anche l’esigenza di garantire un’affidabile progettazione finanziaria e del bilancio, e la necessità di garantire l’uniforme applicazione della legge in ambito amministrativo. [continua ..]
Considerando che la Corte potrebbe non avere più occasione di pronunciarsi sull’esenzione per dichiararne l’illegittimità, v’è da chiedersi, allora, quale conseguenza dovrebbe determinarsi qualora il monito non venga accolto. Certo è, invece, che laddove si volesse cogliere l’opportunità cagionata da tale sentenza per rimettere mano al sistema dell’esenzione, il legislatore non avrebbe un compito facile. Sicuramente emerge dalle considerazioni della Corte che l’esenzione andrebbe quantomeno rimodulata in ragione delle dimensioni dell’impresa e della protezione delle effettive esigenze sociali cui essa dovrebbe rispondere e che potrebbero essere minate nel passaggio generazionale [28]. L’interesse alla continuità dell’esercizio dell’impresa da parte del nucleo familiare non è infatti risultata esigenza di per sé idonea a giustificare una esenzione così ampia e generalizzata. Ma rimane l’antico dilemma, che potrebbe riproporsi in sede di revisione dell’esenzione in esame: eliminare o mantenere il tributo sulle successioni e le donazioni? La scelta dipende in prevalenza dall’indirizzo politico assunto, ma non si può sottacere che l’imposta in questione produca un gettito piuttosto basso a fronte di alti costi di gestione [29] e che la rimodulazione dell’esenzione potrebbe riportare in vita le stesse pratiche elusive messe in atto prima della riforma operata dalla L. n. 342/2000, volte a sottrarre all’imposizione soprattutto i grandi patrimoni.